Gli affreschi di San Lorenzo

Il Pontormo e la Riforma protestante

Buona parte del diario del Pontormo è assorbita dalle annotazioni riguardanti i dipinti di San Lorenzo, di cui vengono registrati i progressi accompagnati spesso da piccoli disegni tracciati a margine del testo con pochi tratti stenografici, insieme a considerazioni sulla esecuzione dei cartoni preparatori, sulla stesura dell’intonaco, sui sopralluoghi compiuti dai committenti: “…vene la Duchessa a Sancto Lorenzo, el Duca vene anco” (22 marzo 1554); “…e venne el Duca a Sancto Lorenzo, cioè a l’uficio” (13 aprile 1555); “…lunedì feci quello braccio della figura di testa che alza, e lascia’la insino quivi come monstra questo schizo” (11 marzo 1555); “30, martedì, cominciai la figura. Mercoledì insino a la gamba… Venerdì feci el bracio che s’apogia. Sabato quella testa de la figura che l’è sotto, che sta così” (30 luglio-3 agosto 1555); “Adì 4 marzo feci uno pezo di torso insino a le pope e pati’ fredo e vento tale che la nocte io afiocai, e l’altro dì poi non potei lavorare. Adì 6 feci tucto el torso. Adì 7 forni’ – finii – le gambe” (4-7 marzo 1556); “Circha al lavoro, da dì detto di sopra, cioè 29 luglio, insino a dì 26 d’agosto, io ho fatto quella figura vestita, di testa, con quel poco dell’aria, e ordinato el Sancto Lorenzo… Adì 27 detto portai el cartone del Sancto Lorenzo e apicossi – si attaccò – da poter lavorare” (29 luglio-27 agosto 1556).
Una commissione di prestigio
Il Pontormo ricevette la commissione di decorare ad affresco la cappella maggiore della basilica di San Lorenzo, chiesa di famiglia dei Medici che vi ricevevano la sepoltura fin dal Quattrocento, dal duca (in seguito granduca) Cosimo I tra il 1545 e il 1546. Secondo le intenzioni del signore di Firenze egli avrebbe dovuto dipingere un “Giudizio Universale” che fosse in grado di rivaleggiare con quello realizzato da Michelangelo nella Cappella Sistina, e l’artista si concentrò sull’impresa con grande zelo e costanza, esaltato dalla grandiosità del compito assegnatogli e al contempo spaventato dal paragone con il Buonarroti. Innalzato sul posto uno dei consueti steccati tramite i quali era solito sottrarsi allo sguardo della gente, similmente a quanto era già accaduto durante i lavori per il portico della Santissima Annunziata (1513), per la Cappella Capponi in Santa Felicita (1525-28) e per il salone della villa di Poggio a Caiano (1532-34), per circa dieci anni si divise tra lo studio e la basilica per dare corpo al volere del duca, immaginando vaste composizioni e definendo singole figure, eseguendo schizzi e disegni, cartoni ed affreschi, logorandosi il corpo e la mente in un incarico probabilmente troppo gravoso per le sue possibilità sia fisiche che mentali, talmente estenuante da gettarlo in un abisso di malesseri ininterrotti e da causargli un esaurimento nervoso di proporzioni colossali.
Un programma pericoloso
Il complesso programma iconografico, a cui non fu forse estraneo il letterato Benedetto Varchi, venne quasi sicuramente messo a punto dal prelato Pierfrancesco Riccio (o de’ Ricci), segretario personale prima e maggiordomo di corte poi di Cosimo I, con delega alle politiche culturali del ducato, oltre che canonico di San Lorenzo. Egli nutrì un forte interesse nei confronti delle teorie eterodosse che erano sorte in varie nazioni dell’Europa a partire dalla Riforma protestante avviata da Martin Lutero (di cui il 31 ottobre è scoccato il cinquecentesimo anniversario), in special modo nei riguardi di quelle propugnate da Juan de Valdés attraverso il suo “Catechismo”, e fu inoltre in possesso di una copia manoscritta del “Beneficio di Cristo”, un testo pubblicato negli anni Quaranta del XVI secolo nel quale veniva esaltato il dono della salvezza eterna che proviene esclusivamente dalla fede nel Redentore. Messo all’indice dei libri proibiti per il contenuto giudicato eretico, divenne oggetto di una autentica campagna di persecuzione che portò alla distruzione di tutti gli esemplari esistenti ad eccezione di quello che fu inaspettatamente reperito a Cambridge nella biblioteca del Saint John’s College nel 1855.
Tanti fermenti eretici
La condanna della Chiesa romana, del suo dogmatismo e della sua corruzione, l’affermazione in base alla quale tra Dio e l’uomo non devono esserci intermediari, l’abbandono alla grazia di Cristo che è il solo che può garantire la salute dell’anima unicamente in virtù della fede e non mediante l’esercizio delle opere resero le teorie di Lutero, Calvino, Valdés ed altri invise al papato, alla curia pontificia e in definitiva alla maggioranza della gerarchia ecclesiastica cattolica, tanto che molti degli individui che a vari livelli professavano questi nuovi tipi di credo in parecchi casi furono perseguitati, torturati, processati e giustiziati. Nella Firenze dell’epoca questi fermenti trovarono spazio sulla superficie muraria di San Lorenzo, in un elaborato ciclo figurativo che attorno al fulcro costituito dalla scena centrale del “Giudizio” squadernava per analogia o per contrapposizione altri dodici episodi della storia biblica, dalla “Creazione di Eva” a “Caino uccide Abele”, dal “Diluvio Universale” a “Mosè riceve le tavole della legge”, per finire con il “Martirio di San Lorenzo”, santo eponimo della basilica a cui l’edificio è intitolato.
Una leggenda nera
Dal tempo primordiale della Creazione a quello finale del Giudizio nel coro della chiesa veniva narrata l’evoluzione del genere umano mediante il riscatto che intercorreva tra il peccato originale dei progenitori e l’apparizione di Cristo in Gloria, che non a caso era rappresentato sopra Eva, ma anche, secondo un plateale sovvertimento dell’ordine trinitario, sopra l’Eterno. Non era la sola stranezza presente nei dipinti, ma fu certo quella che colpì maggiormente i contemporanei e le generazioni a venire, insieme allo spettacolo spaventoso ed inquietante offerto dal “Diluvio” e dalla “Resurrezione dei morti”, dove davanti agli occhi dei riguardanti si mostravano viluppi di corpi inermi ammassati l’uno sull’altro con le membra intrecciate in grovigli inestricabili, vinti dal torpore della morte o incapaci di cogliere con slancio il ritorno alla vita. In quel tempo o in un periodo non molto successivo fiorì una leggenda nera in base alla quale si diceva che il Pontormo avesse utilizzato dei veri cadaveri e li avesse immersi nell’acqua per farne gonfiare i corpi ed ottenere così un effetto più realistico, tuttavia questa notizia non pare davvero plausibile, mentre è stato appurato che per preparare in modo ottimale il risultato definitivo egli plasmò un gran numero di modelli di terracotta, che vennero scoperti nella sua abitazione dopo la sua morte.
Una morte improvvisa
Questa dovette avvenire con ogni probabilità in maniera relativamente subitanea, considerato che come testimonia anche il diario, che si interrompe alla fine di ottobre, sullo scorcio dell’anno il pittore era intento a lavorare di buona lena. Sembra che il decesso fosse provocato da una forte crisi di idropisia, presumibilmente a cavallo tra il 31 dicembre 1556 e il 1° gennaio 1557, dato che l’artista fu ritrovato senza vita il giorno di Capodanno e ricevette i funerali nella parrocchia della Santissima Annunziata il 2 di gennaio. Sulla scorta dei disegni preparatori gli affreschi vennero ultimati dal Bronzino, e finalmente inaugurati il 23 luglio 1558. Il cronista Agostino Lapini registrò l’avvenimento nel suo “Diario fiorentino” scrivendo le seguenti parole: “Si scopersero le pitture della cappella e del coro dell’altare maggiore di San Lorenzo, cioè il Diluvio e la Resurrezione dei morti, dipinta per mano di maestro Iacopo da Puntormo, la quale a chi piacque a chi no. Penò anni 10 a condurla, et anco poi morse avanti la finissi e gli dette il suo fine maestro Agnolo detto Bronzino eccellente pittore”. Il Vasari invece stroncò gli affreschi senza pietà, condannandoli senza possibilità di appello.
Una stroncatura senza appello
“Ma io – affermò duramente nella seconda edizione “Vite”, pubblicata nel 1568 – non ho mai potuto intendere la dottrina di questa storia, se ben so che Iacopo aveva ingegno da sé e praticava con persone dotte e letterate, cioè quello che volesse significare in quella parte dove è Cristo in alto, che risuscita i morti, e sotto i piedi ha Dio Padre che crea Adamo et Eva. Oltre ciò in uno de’ canti dove sono i quattro Evangelisti nudi con libri in mano, non mi pare, anzi in niun luogo, osservato né ordine di storia, né misura, né tempo, né varietà di teste, non cangiamento di colori di carni, et in somma non alcuna regola, né proporzione, né alcun ordine di prospettiva: ma pieno ogni cosa d’ignudi, con un ordine, disegno, invenzione, componimento, colorito e pittura fatta a suo modo, con tanta malinconia e con tanto poco piacere di chi guarda quell’opera, ch’io mi risolvo, per non l’intender ancor io, se ben son pittore, di lasciarne far giudizio a coloro che la vedranno. Percioché io crederei impazzarvi dentro et avvilupparmi, come mi pare, che in undici anni di tempo che egli ebbe, cercass’egli di avviluppare sé e chiunque vede questa pittura con quelle così fatte figure”.
Un tentativo di copertura
Una condanna tanto severa fu senz’altro da parte del Vasari un tentativo messo in atto per proteggere Cosimo I de’ Medici, suo mecenate e signore, a cui aveva peraltro dedicato entrambe le edizioni delle “Vite”, dai sospetti di eresia che si erano appuntati legittimamente sugli affreschi di San Lorenzo. Il duca non poteva non essere al corrente del significato dei dipinti: il Riccio era uno dei suoi più stretti collaboratori, inoltre siamo informati del fatto che si recava con una discreta frequenza a verificare l’andamento dei lavori, come il Pontormo riferisce nel diario, infine è risaputo che la sua condotta politica nel periodo in cui l’artista eseguiva il ciclo laurenziano attraversava un momento di forte tensione nei confronti del pontificato di papa Paolo III Farnese, perciò non è insensato ipotizzare che egli avesse caldeggiato se non addirittura promosso il programma teologico dispiegato sull’abside della basilica fiorentina, tenute in debito conto anche certe sue accese dichiarazioni riportate in alcune epistole: “…non dirò d’essere heretico – scriveva nel 1546 alla corte asburgica –, ma di tener poco conto della persona stessa di Sua Santità”; mentre solo qualche mese più avanti si era sfogato con il suo agente presente nella città di Roma confessando che si sentiva sul punto di diventare non soltanto “luterano, ma turco”.
Gli strali della Controriforma
Nel frattempo però il Concilio di Trento, terminato nel 1563, si era pronunciato severamente su molte questioni dottrinarie, e perfino un capolavoro ammirato come il “Giudizio Universale” dipinto nella Sistina da un maestro osannato quale Michelangelo aveva dovuto subire l’umiliazione della scure censoria di Santa Romana Chiesa, che aveva incaricato il valente pittore Daniele da Volterra di coprire le nudità dei personaggi raffigurati sulla parete di fondo della celebre cappella (per questa poco lusinghiera impresa all’artista sarebbe poi rimasto attaccato per sempre il soprannome di “braghettone”, in riferimento appunto alle braghe con cui celò le parti intime di numerose figure), ed alla fine anche Cosimo pensò bene di moderare i toni per non incorrere nelle maglie della Controriforma e dell’Inquisizione che stava riprendendo vigore e castigava con mano pesante quanti contestavano l’ortodossia cattolica o erano anche solamente sospettati di farlo. A riprova di ciò si può menzionare il fatto – indubbiamente poco onorevole ma a onor del vero ancora controverso – che dopo averlo accolto alla sua corte fu proprio il duca di Firenze a consegnare all’Inquisizione romana il diplomatico Pietro Carnesecchi, che dopo un estenuante processo nel 1567 venne condannato come eretico e infine decapitato ed arso su Ponte Sant’Angelo.
Un cinismo tattico
Del resto il Vasari con il Pontormo adottò in più di un’occasione la tattica di denigrare in quanto prive di senso o di passare comunque sotto silenzio altre sue opere per sviare dal suo protettore determinati sospetti o per non incorrere nelle sue ire. La prima volta avvenne nei confronti delle “Storie della Passione” dipinte per la Certosa del Galluzzo intorno agli anni 1523-25. I cinque episodi affrescati dall’artista (l'”Orazione nell’orto”, “Cristo davanti a Pilato”, l'”Andata al Calvario”, la “Deposizione” e la “Resurrezione”) furono ripresi dalla fortunata serie della “Grande Passione” di Albrecht Dürer, il famoso pittore ed incisore tedesco che grazie alla diffusione delle sue stampe divenne popolare in molte regioni dell’Europa. Esprimendosi a proposito di queste scene il biografo aretino ebbe a dire: “Messosi dunque Iacopo a imitare quella maniera – ovvero lo stile del Dürer –, cercando dare alle figure sue, nell’aria delle teste, quella prontezza e varietà che avea dato loro Alberto, la prese tanto gagliardamente, che la vaghezza della sua prima maniera, la quale gli era stata data dalla natura tutta piena di dolcezza e di grazia, venne alterata da quel nuovo studio e fatica e cotanto offesa da quell’accidente di quella tedesca, che non si conosce in tutte quest’opere, come che tutte sien belle, se non poco di quel buono e grazia che egli aveva insino allora dato a tutte le sue figure… Or non sapeva il Puntormo che i tedeschi e fiaminghi vengono in queste parti per imparare la maniera italiana che egli con tanta fatica cercò, come cattiva, d’abbandonare?”. In realtà tutta l’acrimonia che il Vasari riversò sul collega si può giustificare se si considera che all’epoca ciò che arrivava dalla Germania veniva guardato con sospetto, perché in molti casi si tendeva ad assimilare l’aggettivo “tedesco” con “eretico”, “protestante”, “luterano”, anche quando le opere che giungevano dalle terre teutoniche non veicolavano alcun messaggio eversivo.
Una “Visitazione” misteriosa
La seconda si ripeté con la “Visitazione” di Carmignano, datata pressoché unanimemente agli anni 1528-30, immediatamente a ridosso della decorazione della Cappella Capponi in Santa Felicita di Firenze. Si possono rintracciare almeno due ragioni per le quali per il Vasari poteva essere opportuno non fare parola del quadro oggi custodito nella chiesa di San Michele: il primo è che esso era stato commissionato dai Bonaccorsi-Pinadori, famiglia notoriamente avversa a quella dei Medici (all’inizio degli anni Quaranta si era verificata una violenta faida tra Cosimo e alcuni esponenti della casata nemica: prima il duca aveva fatto impiccare Alessandro Bonaccorsi accusandolo a quanto pare ingiustamente di aver frodato le gabelle, poi il nipote di questi, Giuliano, nascosto nella residenza di campagna di Carmignano, aveva tramato per assassinare Cosimo nel corso di un suo trasferimento nella villa di Poggio a Caiano, ma il Medici, allertato dai due podestà che allora governavano la zona, lo fece catturare senza indugio e lo uccise senza pietà, come narra Antonio Ricci nelle “Memorie storiche del Castello e Comune di Carmignano”, pubblicato nel 1895); la seconda è che il soggetto della tavola anche in questo caso poteva prestarsi a delle interpretazioni che conducevano ad un desiderio di rinnovamento religioso, questo poiché negli anni in cui fu dipinto il tema della “Visitazione” veniva sovente utilizzato per alludere ad un passaggio di consegne tra la vecchia Chiesa romana, simboleggiata dall’anziana Elisabetta, e la nuova Chiesa riformata, incarnata dalla giovane Maria, come hanno più volte sottolineato svariati studiosi tra i quali spicca il francese Philippe Costamagna.
Un artista aggiornato…
Da quanto esposto fino ad ora appare evidente che il Pontormo fu un artista pienamente coinvolto nel dibattito religioso del suo tempo, anche se è difficile stabilire con certezza se l’adesione della sua produzione ai dettami protestanti fosse consapevole e condivisa o se invece manifestasse semplicemente l’aderenza ad un programma iconografico dettato dalla committenza, alla stregua di un compito da svolgere seppur con la massima diligenza e niente di più. Di sicuro egli era un uomo attento ai fermenti culturali in atto nella sua epoca, come testimonia ad esempio la partecipazione alla disputa sul primato delle arti nata in seno all’ambiente accademico fiorentino, in cui fu implicato anche il Buonarroti, a cui prese parte con una celebre lettera indirizzata al Varchi all’interno della quale asserì l’importanza del disegno quale elemento basilare ed imprescindibile per tutte le discipline artistiche, dalla pittura alla scultura all’architettura (“…perché una cosa sola c’è che è nobile, che è el suo fondamento, e tutte quante l’altre ragioni sono debole rispetto a questo”).
…colto e stimato
Possedeva un notevole bagaglio di cultura generale per i suoi tempi, conosceva il Latino (aveva iniziato a praticarlo quando, ancora fanciullo e rimasto orfano di entrambi i genitori, la nonna materna si era presa a cuore la sua educazione e, come riferisce il Vasari, “gli fece insegnare leggere e scrivere et i primi principii della grammatica latina”), s’intendeva di poesia (tra le altre cose nel diario in data 27 gennaio 1555 cita una discussione nata con il Bronzino in merito alla lirica petrarchesca), frequentava intellettuali di estrazione sia laica che religiosa (il già menzionato Benedetto Varchi, Vincenzo Maria Borghini, Giovan Battista Gelli, Giovanni Della Casa, solamente per elencarne alcuni), godeva della stima e della fiducia di Michelangelo (negli anni Trenta, quando durante il suo soggiorno fiorentino era oberato dai numerosi impegni di lavoro cui non riusciva a fare fronte da solo, lo scultore gli aveva affidato l’esecuzione di due dipinti da realizzare su suo disegno, il “Noli me tangere” e “Venere e Amore”), pur non essendo mai diventato pittore di corte riceveva copiose commissioni dalla dinastia medicea e da molte altre famiglie importanti di Firenze e della Toscana, e all’occasione era capace di scrivere in forma elegante, strutturando i pensieri in periodi complessi e ricercati, anche se dal manoscritto questi elementi non traspaiono perché il lessico adoperato per le scarne annotazioni di dimessa vita quotidiana è palesemente adeguato all’evenienza.
La fatica perduta
Del lungo e faticoso periodo di lavoro svolto nel coro di San Lorenzo paradossalmente è rimasto soltanto quel piccolo nucleo di carte, degli appunti privi di velleità letterarie che l’artista aveva assemblato servendosi di alcuni dei fogli che impiegava ordinariamente per disegnare, che aveva piegato e cominciato a coprire di note forse in un momento di pausa forzata dall’attività, a seguito di una caduta che lo aveva costretto al riposo per diverse settimane: “Adì 7 in domenica sera di genaio caddi e percossi la spalla e ‘l braccio e stetti male e stetti a casa Bronzino sei dì; poi me ne tornai a casa e stetti male insino a carnovale che fu adì 6 di febraio 1554”. Degli affreschi che tanto sudore erano costati al Pontormo al giorno d’oggi non resta più niente, ad eccezione di una trentina di disegni autografi divisi tra il Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi (che ne conserva la quasi totalità), l’Accademia Carrara di Bergamo e le Gallerie dell’Accademia di Venezia (che ne possiedono uno ciascuno), in prevalenza studi di nudo dai quali emerge da parte del pittore la superba conoscenza dell’anatomia umana.
I dipinti andati in fumo
Tra il 1738 e il 1742 Anna Maria Luisa de’ Medici, conosciuta anche come l’Elettrice Palatina, l’ultima esponente della grande dinastia fiorentina (vedi “Anna Maria Luisa, l’ultima Medici” di Barbara Prosperi), dedicò le sue residue risorse ed energie al completamento e alla ristrutturazione della chiesa di famiglia; in quella circostanza il complesso architettonico fu fornito del campanile e venne interessato dal consolidamento delle mura absidali, e fu allora che i dipinti pontormeschi furono demoliti senza riguardo. In base alla testimonianza registrata nel chronicon del Capitolo di San Lorenzo il 16 ottobre 1738 è possibile appurare che “in detto giorno andò in fumo la pittura di Jacopo da Pontormo che era stimata una delle bellezze di Firenze”. A dispetto del giudizio lusinghiero di chi redasse questa nota, alcuni anni più tardi il gesuita Giuseppe Richa nelle “Notizie istoriche delle chiese fiorentine, divise nei suoi quartieri” (1754-62) continuò ad infierire nel solco tracciato dal Vasari scrivendo: “Non ci dispiaccia veder tolte via, in occasione di dover fare alcuni archi ed altri rifacimenti, le pitture che tutte adornavano la Tribuna, fatte da Jacopo da Pontormo… vi aveva colorito le historie del Diluvio, e della resurrezione Universale, nelle quali egli vi spese undici anni… ma non per essere state dipintute che per l’invenzione, per la disposizione, o per il colorito valessero molto, un tal perdita non è da piagnersi”.
Un recupero parziale
Offuscati da una serie di sentenze impietose ed infamanti, dettate dall’opportunismo e dall’ignoranza, da sempre considerati scomodi se non addirittura pericolosi, in ultimo con il pretesto dei lavori di restauro gli affreschi del Pontormo vennero eliminati affinché non potessero più dare origine ad interrogativi inquietanti e a fastidiosi imbarazzi. Con il passare del tempo ed il mutare delle condizioni storiche oggi si è fatta pienamente strada la consapevolezza che con la distruzione dei dipinti laurenziani la storia del pittore in particolare e quella dell’arte in generale hanno perso una fondamentale testimonianza, utile per capire al meglio il Pontormo, la sua produzione complessiva, la temperie culturale in cui quel ciclo figurativo era nato e in definitiva quello che il XVI secolo aveva sedimentato non soltanto nel capoluogo toscano ma anche in Italia e in Europa. Sul finire degli anni Novanta del secolo scorso l’artista fiorentino Alessandro Vannini, profondo conoscitore dell’opera pontormesca, sulla scorta dei disegni preparatori superstiti, di una incisione risalente al 1598 e delle fonti letterarie ha in parte ricostruito con grande rigore filologico l’aspetto degli affreschi perduti di San Lorenzo, esponendo successivamente il risultato della sua suggestiva ricerca nella Chiesa Cristiana Evangelica dei Fratelli di via della Vigna Vecchia, antica sede del tribunale e del carcere dell’Inquisizione che un tempo ebbero luogo nella città del giglio. (Barbara Prosperi)

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