Dopo l'8 settembre

L’8 SETTEMBRE 1943 l’annuncio d’armistizio dell’Italia da parte del maresciallo Badoglio giunse per molti improvviso. Inutilmente infatti, per l’opposizione soprattutto di inglesi ed americani, lo Stato Maggiore italiano aveva cercato di rinviare di quattro giorni il proclama, in modo da aver più tempo per organizzarsi e far ripiegare le proprie forze. C’era un’incertezza che potremmo definire “psicologica” sul comportamento da tenere verso chi, fino al giorno prima, era stato un alleato. Poteva bastare questo a generare crisi e sbandamento. Ma mancarono pure precisi ordini operativi, che giunsero solo tre giorni più tardi. Fu così dei nazisti la prima mossa. Ed oltre 600.000 soldati, che non erano reduci di piccole e selezionate unità di elite bensì gente che aveva sofferto, combattuto e quasi sempre era stata sconfitta, caddero prigionieri dei tedeschi.

Di questi oltre 40.000 non faranno più ritorno a casa, uccisi dalle armi dei carcerieri, dalle malattie, dalla denutrizione e dalla sevizie. Quei 600.000 soldati erano comunque anche un popolo ed un esercito estremamente corteggiato. C’erano appelli continui dei tedeschi e dei fascisti di Salò a combattere a fianco della Wermacht ed arruolarsi nel nuovo esercito della Repubblica Sociale di Graziani, oppure a contribuire nelle fabbriche allo sforzo bellico della Germania e prestare giuramento come “libero lavoratori” (ma solo verso la fine del “44). Il diniego comportava prigionia, fame, sporcizia, freddo ed una infinità di umiliazioni. Eppure, nonostante le indicibili privazioni, il rischio di sofferenza ed angherie, le fatiche e le offese, solo il 2 per cento di quanti furono catturati risposero “si” alle allettanti proposte dei nazi-fascisti. Fu una vera “Resistenza senz’armi”, parallela alla lotta partigiana del Nord Italia ed al corpo di liberazione al Sud, che è poi il titolo anche di un libro uscito nel 1984 a prefazione di Leonetto Amedei (nei quaderni di Spadolini) dedicato a quegli uomini. Uomini a cui i tedeschi non vollero riconoscere, il più delle volte, neppure lo status giuridico di “prigionieri di guerra”. Ed è qui che sta il paradosso e l’ingiustizia (ma anche l’unico spiraglio formale aperto) riguardo i risarcimenti per gli “schiavi di Hitler” apparentemente negati. I soldati italiani furono difatti sottratti al controllo e all’assistenza degli organi internazionali previsti dalla convenzione di Ginevra del 1929, né ricevevano i pacchi della Croce Rossa. Ipocritamente venivano definiti “internati militari”, ma nei campi erano più comunemente apostrofati col nome di “stik”: “pezzi” umani, oramai ridotti solo ad un numero di matricola, e vittime predestinate a quel castigo esemplare che Hitler aveva promesso agli italiani, colpevoli di aver rotto il patto di alleanza. Ma se la loro fu una Resistenza, i toni furono assai meno epici di quella partigiana. Nella coscienza e nel ricordo della nazione i militari internati furono pressoché cancellati: un vero oblio. E solo nel dicembre 1977, a titolo di onore, alcuni parlamentari presentarono una proposta di legge per riconoscere a quei soldati, o meglio ex-soldati, la qualifica di “volontari della libertà”. (wf)

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