Storia millenaria di un’abbazia

Quella di San Giusto al Montalbano

Adesso è un edificio abbandonato e pericolante, che il Comune di Carmignano e singoli cittadini stanno cercando di sottrarre al degrado attraverso l’opera della neonata associazione “Amici di San Giusto”, la quale intende lottare con impegno e determinazione contro l’azione del tempo e l’erosione degli agenti atmosferici da un lato e il silenzio e la ‘burocrazia” della Soprintendenza e di altre istituzioni dall’altro.

Ma anticamente l’abbazia di San Giusto al Montalbano, che da pochi anni si è riscoperta pubblica e non una proprietà privata come per gran parte del Novecento si è pensato, era una chiesa ed un centro religioso di grande rilevanza e prestigio.

L’edificio, sobrio ed imponente al tempo stesso, caratterizzato da un limpido gioco di volumi che si intersecano accentuando la tridimensionalità della struttura, si innalza al centro di un’ampia radura erbosa, circondato da un folto e suggestivo bosco di cerri, lecci e pini marittimi, ai piedi della salita che conduce a Pietramarina, a circa quattrocento metri di altitudine.

Sorta presumibilmente nel XII secolo lungo un’importante via di comunicazione che affluiva sulla via Francigena, la chiesa è stata fondata in epoca romanica da monaci cistercensi (ovvero appartenenti all’ordine creato nel 910 d.C. da San Brunone da Cluny) ed edificata grazie al probabile apporto di maestranze francesi.

Nella seconda metà del Duecento è citata in un documento come “ecclesia Sancti Iusti de Monte Albano” e registrata come dipendente dalla pieve di Bacchereto. A dispetto di quanto afferma la tradizione popolare, nelle testimonianze che la riguardano non si trova alcun riferimento all’esistenza di una comunità monastica presente sul posto, tuttavia è possibile ipotizzare che per un certo periodo di tempo l’abbazia abbia ricoperto il ruolo di canonica.

Anticamente per canonica si intendeva una chiesa di notevole importanza, seconda solo alla pieve da cui dipendeva, al cui interno albergava un gruppo di sacerdoti diocesani. Essi vivevano in maniera comunitaria, secondo un costume che aveva numerosi punti di tangenza con quelli adottati dalle confraternite conventuali vere e proprie, e si dedicavano sia al culto liturgico collegiale che al ministero pastorale e alla cura delle anime.

L’edificio presenta una pianta a croce commissa e si contraddistingue per un impianto architettonico estremamente elegante ed articolato, a causa delle numerose influenze che vi si riscontrano e per l’avvicendarsi delle diverse fasi costruttive. Sull’unica, altissima navata si innesta un transetto fortemente aggettante, concluso da tre absidi strutturalmente separate, e notevolmente rialzato sulla cripta sottostante.

La costruzione è stata realizzata mediante l’impiego di blocchi di pietra arenaria locale, e mostra rilevanti differenze nella misura e nella lavorazione delle bozze del paramento murario. In alcuni casi tali diversità sono imputabili ad integrazioni o restauri effettuati in epoche più tarde, ma non di rado attestano un’esecuzione sviluppatasi in tappe distinte e successive.

L’attività edilizia iniziò probabilmente dalla zona absidale, procedendo dunque dalla parte posteriore in direzione della facciata. In questa prima fase si osserva un tipo di lavorazione particolarmente sapiente e raffinata, applicata su blocchi di grandi dimensioni perfettamente squadrati ed accuratamente rifiniti, che ha indotto gli studiosi a presumere il coinvolgimento di direttori ed operai altamente qualificati. Il campanile venne forse realizzato in un secondo momento.

Nel corso del XIII secolo l’abbazia fu gravemente danneggiata da un esteso crollo strutturale, che interessò una vasta porzione della fiancata e del transetto destri. Per la ricostruzione vennero adoperati conci di modesta pezzatura e di lavorazione sommaria. In tale frangente il transetto fu rialzato e le volte della cripta vennero ribassate.

Malgrado gli interventi condotti nel Duecento, la chiesa continuò a decadere. In occasione di una visita pastorale effettuata nel 1376 al vescovo fu riferito che nell’edificio non esisteva un luogo sicuro dove conservare il Santissimo e gli oli santi, e inoltre che vi si trovavano arredi e paramenti di entità assai modeste. Il degrado continuò nei secoli a venire, e San Giusto venne declassato a semplice oratorio.

In un’altra visita pastorale del 1582 fu riportato che la costruzione era quasi diroccata, nonostante la grande devozione popolare di cui era oggetto, e ne venne chiesto il restauro affinché vi si potesse officiare e si evitasse che l’abbazia divenisse in breve un covo di briganti.

Nel Seicento un sacerdote stipendiato dal granduca di Toscana vi celebrava sporadicamente la messa sull’altare maggiore, mentre altri due altari, definiti spogli e indecenti, non erano utilizzati. Al di fuori delle funzioni la chiesa rimaneva chiusa.

Nella prima metà del Settecento l’edificio era in buone condizioni. Vi officiava il parroco di Verghereto prima ed un eremita che viveva nei pressi dell’abbazia poi. Nei decenni successivi tuttavia l’oratorio finì in stato di abbandono, e all’inizio dell’Ottocento di fatto risultava soppresso.

Con il crollo del tetto sulla navata e di parte del muro della parete destra, si ridusse in poco tempo ad un rudere. Nell’ultimo quarto del secolo fu attuato un consolidamento delle parti superstiti, ma si dovette aspettare il secondo dopoguerra per assistere ad un restauro complessivo delle strutture, al fine di mettere in sicurezza la chiesa e consentire finalmente la riapertura al culto. Fino alla fine del secolo appena trascorso all’interno dell’abbazia si celebrava ancora la messa e si officiavano perfino matrimoni. (Barbara Prosperi)

Per approfondire:
L’architettura dell’abbazia di San Giusto ai raggi X

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