“Varco il cancello del rione e mi sento a casa”

Simone Spinelli racconta il rione bianco

Per molti il rione rappresenta una scuola di vita, un luogo in cui ci si sente a casa e dove ad aspettarci c’è sempre una famiglia che non ci è capitata per caso ma che abbiamo scelto. Per chi è cresciuto dentro al rione è difficile allontanarsene, quando la vita non ti porta laddove avresti desiderato. Per ogni fine però c’è sempre un nuovo inizio e questo risiede nel legame speciale con la sartoria e il cantiere che ogni anno si rinnova, eternamente uguale a se stesso. Vivere il San Michele da lontano, soprattutto nei mesi che precedono la sua più intensa preparazione è simile ad una relazione d’amore a distanza. A raccontarci questo lato nostalgico è Simone Spinelli (34 anni), milanese di adozione da dieci anni e regista effettivo del rione bianco dal 2005.
Qual è stato il tuo primo San Michele?
Mi ricordo benissimo la mia prima sfilata, si intitolava “VINO”, ed era il 1992. Ero vestito da ape su un carro dove c’erano delle persone che schiacciavano uva in una grande vasca centrale. In realtà avrei dovuto sfilare anche l’anno precedente ma il rione, che soffriva di problemi economici, portò in piazza una sfilata di protesta, “Le quattro stagioni”, che fu molto sfortunata. I personaggi erano soltanto alberi di gomma piuma e margherite che si inserivano tra una stagione e l’altra, per lo più tutte parti non adatte ad un bambino.
Come hai vissuto la festa in famiglia e durante l’infanzia?
La mia famiglia è sempre stata vicina al San Michele ed in particolare al rione bianco. Mio zio è stato ‘trattorista’ (chi col trattore traina i carri in piazza e lungo il percorso ndr), mio babbo e poi mio cugino sono stati fantini. I miei ricordi di infanzia sono a Santa Cristina a Mezzana: per noi bambini giocare in piazza o andare al cantiere era un divertimento, l’estate finiva di conseguenza sempre dopo San Michele.
Vista questa forte vicinanza della tua famiglia con il rione, avevate particolari tradizioni nei giorni che precedevano la festa?
La mia famiglia è una delle ultime contadine e patriarcali di Carmignano, perché unisce la famiglia di mio babbo a quella di mio zio. Noi tutti vivevamo il San Michele dall’interno e provavamo sempre un’emozione enorme. Nel mese di settembre la nostra vita era scandita dalla festa e dalla vendemmia. Non c’erano vere e proprie tradizioni, quanto dei rituali che si ripetevano ogni anno: trascorrevamo le serate intorno al focolare a parlare dei carri e di quello che avremmo potuto portare in scena e durante il pranzo della domenica, che si svolgeva dopo la prima sfilata, parlavamo di quello che era accaduto la sera precedente.
Negli anni della tua infanzia hai vissuto il rione con gli occhi incantati di un bambino che vede ogni anno uno spettacolo meraviglioso. Cosa ricordi della sartoria e del cantiere?
Ho un aneddoto da raccontarti: le sarte venivano a casa per proporre una parte o per fare le prove dei vestiti che avrebbero dovuto indossare mia sorella e mio cugino, entrambi più grandi di me. Era una festa più povera di mezzi, ma ricca di valori, come lo stare insieme. Questi valori sono stati tramandati, ma oggi la festa è gigantesca rispetto a come era allora. Quanto alla sartoria e al cantiere, non erano sul poggio dove sono attualmente. La sartoria era dentro al circolo, mentre il cantiere era all’interno dell’aia di Niccolo (soprannome della famiglia Spinelli). Nell’aia si costruivano i carri e si facevano le prove: quel luogo ci faceva sentire protetti, come in un abbraccio, e ci consentiva di tenere gelosamente custodito il tema fino all’ultimo momento.
Dopo tanti anni da figurante hai capito che era venuto il momento di prendere una strada diversa. Come sei entrato a fare parte della regia del rione?
Era il 2002 ed era l’anno della maturità, ero molto curioso ed affascinato dalla recitazione. Speravo che il teatro potesse diventare il mio mestiere, poi lo studio ed il lavoro mi hanno portato a Milano, dove tuttora vivo. A condurmi nel gruppo è stato Nicola Innocenti, allora regista del rione, che mi chiese di affiancarlo nelle attività di regia, dalla scelta dei tessuti alle prove in sala di registrazione. Accettai perché sentivo di avere dentro di me delle storie da raccontare, avvicinandomi in punta di piedi ma senza vergogna. La mia grande fortuna è stata avere trovato delle persone che mi hanno accolto e che mi hanno dato fiducia, nonostante non fossi mai stato nel dietro le quinte.
A tanti anni di distanza avrai sicuramente fatto un po’ di bilancio rispetto al primo anno di regia…
La sfilata del 2002, “L’urlo muto del silenzio”, era una mia idea, ma non ero ancora pronto per affrontare il San Michele da solo. La storia raccontava di un manoscritto ritrovato per caso a Carmignano, che veniva aperto in piazza da una folata di vento e raccontava quattro storie diverse, da cui poi traevano origine i simboli dei rioni. La sfilata che ha invece segnato il mio esordio è stata “Notte di echi lontani” del 2005, ambientata in un’era mitologica e incentrata sull’amore impossibile tra il dio Elbanus ed una ninfa. Da questo amore sarebbero nati il Montalbano ed il fiume Ombrone. Quando ripenso a quella sfilata rido, perché l’idea che c’era alla base diventò un racconto surreale e finì per perdere di emozione. Fu un anno di passaggio, nel rione c’erano molti talenti inespressi, che sarebbero venuti fuori negli anni successivi. Conservo invece un bellissimo ricordo del 2002 e del grande lavoro che fu fatto dal rione e della regia condivisa con Nicola.
Oltre ad avere creduto in te, Nicola è stato il tuo maestro di regia. Qual è l’insegnamento che ancora ti porti dietro e che speri un giorno di lasciare a qualcun altro?
A Nicola devo molto di quello che so sul San Michele e di come si costruisce una sfilata. Degli anni in cui sono stato il suo aiuto regista mi porto dietro questo: il San Michele è un’immaginazione, che ti guida sempre e ti permette di tirare fuori da un cencio qualcosa di meraviglioso, che prima non esisteva. Non ho mai avuto filtri nel raccontare il mio territorio e attraverso il San Michele ho finito, come spesso accade, anche per raccontare me stesso e le mie emozioni. A mia volta spero di poter lasciare questo insegnamento a chi busserà, un giorno, alla mia porta con una nuova storia da portare in piazza.
Nelle storie che hai raccontato ci sono tanti personaggi che hanno lasciato un segno a Carmignano. Quali tra questi porti nel cuore e sono stati per te fonte di ispirazione?
La mia prima musa è stata la nonna, da bambino mi incantavo ad ascoltare, intorno al camino, le storie di guerra o di quando io ancora non ero nato. Poi al rione ho conosciuto tanti personaggi, tra cui Morando Pucci (detto Liborio) oppure Ermanno Guidi, che sono stati altrettante fonti di ispirazione. Alla memoria di Morando Pucci abbiamo deciso di dedicare la nostra ultima rappresentazione, “E il cuore salta un battito”, la storia di un padre che racconta al figlio la propria vita come se fosse tutta una grande favola. Morando era il personaggio giusto per il messaggio finale che abbiamo voluto lanciare, che è vivere con leggerezza perché la vita è un palcoscenico da cui alla fine usciremo tutti.
Aldilà della sfilata del 2002 che è stata l’inizio di un nuovo percorso, qual è quella a cui senti di essere più affezionato?
Tra tutte le sfilate che abbiamo realizzato in questi quindici anni, quella a cui sono più affezionato è “L’ultimo colore” del 2013, dedicata a Gino Balena. Gino insegnava arte alle scuole medie di Carmignano ed è stato regista del rione negli anni Settanta. Nell’inverno del 2012 è tornato a Carmignano, dopo quaranta anni con, la mostra “Primo mondo” relativa al suo soggiorno in Africa. Noi rionali gli chiedemmo di incontrarci in sartoria a gennaio, quella sera cadde la neve ed il paesaggio era tutto bianco. Gino non finiva di raccontare i suoi aneddoti e i rionali storici avevano tirato fuori vecchie fotografie in bianco e nero che si passavano tra le mani. Alla fine della serata ci promise di dipingere lo stendardo del rione e fu invitato durante il San Michele. Dalle tribune mi disse “grazie” perché con quella sfilata, incentrata sulla diversità che non deve essere temuta ma trasformata in arte, gli avevamo restituito ciò che lui meritava. Era la chiusura di un ciclo: Gino era tornato a Carmignano e tornava in scena con la storia della sua vita.
Da quella sfilata sono passati già quattro anni, pensi che il San Michele sia cambiato nel frattempo?
Cambiamo noi e di conseguenza cambia anche la festa. È un bene che sia così, è giusto che resti il legame con il territorio ma è anche giusto agevolare il cambiamento che ora è il teatro in strada.
Adattarsi al cambiamento non è mai facile ed immediato, come l’avete vissuto all’interno del rione?
Stiamo cercando di stare al passo con i tempi: la sfilata dell’anno scorso ne è la dimostrazione visto che era interamente recitata dai figuranti. Per arrivare a fare il vero teatro in piazza ci siamo messi in discussione. Non è stato facile convincere la vecchia generazione, ancora affezionata alla concezione di sfilata, che questa era la nuova strada da percorrere. Abbiamo fatto due corsi di teatro e fondato anche la compagnia “I CasualMenti”, che ha esordito con lo spettacolo “Cromatica” lo scorso maggio.
Tra pochi giorni andrà in scena il nuovo spettacolo del rione Bianco. Come vivi il San Michele lontano da casa?
Sono dieci anni che vivo a Milano e nei mesi di agosto e di settembre avverto un grande senso di nostalgia, tanto che spesso mi chiedo “cosa faccio qui?”. Vorrei poter uscire da lavoro ogni sera e rifugiarmi al cantiere per pensare soltanto a cose belle. Questo oggi non è possibile. Mi manca la quotidianità del rione, le risate in sartoria o la pastasciutta preparata a mezzanotte. Tutte le volte che torno, è come se non me ne fossi mai andato. Lì dentro ho una famiglia, alla quale non sono legato dal sangue, ma una famiglia che mi sono scelto. Ecco: quando scendo da Milano il fine settimana e varco il cancello del rione, mi sento di nuovo a casa. (Valentina Cirri)

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