La strage del Padule di Fucecchio

Alberto e Bruna, superstiti per miracolo

Aveva poco più di un anno e mezzo Alberto Pratolini quando sotto i suoi occhi sgranati di bambino innocente si consumò una parte di quella che è passata alla storia come la strage del Padule di Fucecchio, durante la quale la mattina del 23 agosto 1944 i soldati nazisti mieterono tra la popolazione civile 174 vittime: uomini, donne e bambini che abitavano nei comuni di Larciano, Monsummano Terme, Ponte Buggianese, Cerreto Guidi e Fucecchio. Alberto, che oggi di anni ne ha settantaquattro, dirigente di banca in pensione, ci racconta la sua storia alla vigilia della presentazione del libro del magistrato Luca Baiada, che su questo tragico episodio della Seconda Guerra Mondiale ha svolto per alcuni anni una serie di indagini approfondite ed appassionate, intervistando con tatto e delicatezza molti dei sopravvissuti all’eccidio o dei loro discendenti. Alla prima categoria apparteneva Bruna Fagni, madre di Alberto Pratolini, scomparsa a 101 anni nel 2015, che per la ricerca di Baiada così come in altre occasioni aveva prestato la sua testimonianza. I suoi ricordi oggi rivivono attraverso le parole del figlio, che con la famiglia risiede da cinquant’anni esatti a Carmignano, dove ha anche ricoperto l’incarico di assessore, e che per evidenti motivi di ordine anagrafico di quella terribile esperienza rammenta poco o nulla.

Nell’estate del 1944 la famiglia Pratolini, formata da Ezio, impiegato nella pubblica amministrazione, di trentacinque anni, da Bruna, sarta, di trenta, e dai figli Alfredo e Alberto, rispettivamente di nove anni e venti mesi, era rifugiata come molte altre nei pressi del Padule di Fucecchio, una vasta area paludosa compresa tra le province di Firenze e Pistoia che per la sua posizione decentrata e per la conformazione naturale che la caratterizza aveva dato riparo ad una grande quantità di persone, che si erano allontanate dalle proprie abitazioni per sfuggire sia ai bombardamenti che ai rastrellamenti operati dai tedeschi. Ezio e Bruna erano entrambi nativi del comune di Larciano, dove si erano da poco spostati da quello di Fucecchio, e, mentre il capofamiglia aveva trovato rifugio all’interno del Padule, nella frazione di Castelmartini la moglie con i due bambini si alternava tra la casa dei genitori, dove trascorreva le ore diurne, e la colonica dei Silvestri, dove passava la notte. Bruna aveva quattro fratelli: Giuseppina, sposata con Nello Pierattini, che era nascosto nel Padule insieme ad Ezio, e madre di Mario, un neonato di appena sei mesi; Giuseppe, fidanzato con Anita Silvestri; Paolina; e Bruno, un ragazzo di soli tredici anni.

All’alba l’ordine del generale: “Annientateli tutti”
La mattina del 23 agosto la donna si trovava nella cucina dei Silvestri insieme ad altre persone tra le quali figurava Annunziata Lepori, una giovane sposa della sua stessa età che aveva con sé il figlio di due anni, Antonio Mazzei. Erano all’incirca le 7 del mattino e Bruna si mise ai fornelli con l’intenzione di preparare una farinata per i bambini. Di lì a poco furono uditi degli spari in lontananza e successivamente il casale fu raggiunto da un colpo di cannone che demolì una porzione di muratura, poi intorno alle otto sull’edificio piombò una pattuglia di soldati tedeschi che fecero irruzione all’interno dell’abitazione. In realtà era dalle prime luci dell’alba che aveva preso il via una vasta operazione militare ad opera della 26° divisione corazzata dell’esercito teutonico, con lo scopo dichiarato di debellare le bande partigiane rifugiate nel Padule. L’ordine impartito dal generale Peter Eduard Crasemann ed eseguito dal capitano Josef Strauch era “vernichten”, cioè “annientare”. I nazisti stimavano che nella zona fossero presenti tra le 200 e le 300 unità di combattenti appartenenti al movimento di Resistenza, ma in effetti l’unica formazione partigiana dislocata nell’area era la “Silvano Fedi” di Ponte Buggianese, un piccolo nucleo costituito da una trentina di elementi capitanati dal professor Aristide Benedetti, che nei mesi di luglio ed agosto aveva tentato dei modesti attacchi contro le forze tedesche, senza infliggere perdite significative all’esercito nemico ma causando svariati episodi di violenta rappresaglia ai danni di alcuni civili che vennero fucilati ed impiccati. Quello che in quel particolare momento premeva specialmente agli invasori era proteggere le proprie vie di fuga, considerato che era in corso la ritirata verso la Linea Gotica e che la parte meridionale del Padule si trovava non a caso sulla loro traiettoria.

Salvi per miracolo
Tra i soldati che avevano raggiunto la colonica dei Silvestri si misero in evidenza tre individui particolarmente spietati che la signora Bruna indicava con l’appellativo di “belve”, i quali indossavano delle divise leggermente diverse da quelle comunemente assegnate in dotazione ai nazisti. “In molti casi si è fatto riferimento al coinvolgimento di collaborazionisti locali, – ci spiega Alberto –, ma su questo argomento non esistono sicurezze, certo è che la mamma ricordava che uno di questi militari era basso e scuro di carnagione e di capelli e si esprimeva con un inequivocabile accento toscano”. Al grido di “Via, tutti fuori!”, le persone presenti nella casa furono fatte uscire all’esterno. Chi tentò di fuggire cercando riparo nelle stanze del pianterreno o del primo piano fu abbattuto sul colpo. Riuscirono invece a scappare senza essere raggiunti né dai soldati né dai colpi di arma da fuoco Giuseppina, che teneva in braccio il piccolo Mario, e Alfredo, mentre Giuseppe si era messo in salvo nascondendosi dentro un pagliaio poco prima che si scatenasse la tragedia. A quanti avevano obbedito all’ordine fu intimato di disporsi lungo la facciata dell’edificio. Per una semplice casualità Bruna, che aveva in collo Alberto, prese posizione sulla sinistra della porta d’ingresso, mentre tutti gli altri si schierarono sulla destra. Quando fu aperto il fuoco vennero colpiti soltanto coloro che si trovavano sulla destra, mentre Bruna ed Alberto furono miracolosamente risparmiati, forse perché coperti da un tedesco che si era inconsapevolmente piantato davanti a loro imbracciando un mitragliatore.

Quella ferocia inaudita. “Mamma a distanza di anni tremava ancora”
Annunziata, morta all’istante, schiantandosi a terra era caduta sul figlio Antonio, ma il piccolo, che era rimasto in vita, ebbe la forza di divincolarsi dal corpo della madre e si alzò ripetendo come una cantilena le parole: “Mamma, bua… Mamma, bua…”. Un soldato allora comandò ad un commilitone di ucciderlo, e quest’ultimo puntò il fucile alla testa del bambino; poi, dopo un attimo di ripensamento, girò l’arma impugnandola per la canna e con il calcio sferrò un colpo violentissimo sul capo del piccino, frantumandogli il cranio in maniera efferata. “La mamma parlò di questo episodio in un paio di occasioni – ci confida Alberto – ed entrambe le volte cadde in preda a delle fortissime crisi epilettiche, tanto che il babbo fu costretto a scuoterla e a schiaffeggiarla per farla tornare in sé. Era rimasta profondamente traumatizzata da quella scena, e raccontava con commozione e raccapriccio di aver visto il cervello del bambino schizzare per aria”. Questa non fu purtroppo l’unica atrocità commessa dai nazisti in quella infernale giornata. Tra gli episodi più scellerati si segnala infatti quello avvenuto a Cintolese, una frazione di Monsummano, dove i tedeschi fecero esplodere una donna di novantadue anni, Maria Faustina Arinci detta Carmela, sorda e cieca, infilandole una bomba a mano in una tasca del grembiule.

La freddezza e il coraggio di Bruna
In definitiva la strage si consumò nel giro di pochi minuti. “Dai racconti della mamma e degli altri superstiti – prosegue Alberto – emerge che gli aggressori avevano una gran fretta di portare a termine il massacro per ripartire verso altre destinazioni. Pare che a causa della concitazione del momento alcuni di loro si fossero addirittura colpiti per sbaglio, come risulta dalla testimonianza dello zio Giuseppe, che dal suo nascondiglio all’interno del pagliaio aveva visto spingere fuori dal casolare un carretto coperto da un telo dal quale pendevano le gambe inerti di un soldato”. Concluso l’eccidio, Bruna entrò nella colonica per constatare quello che era successo, e si trovò a camminare in mezzo ad una moltitudine di persone ferite o uccise. Tra queste erano Anita e suo padre Oreste. Anita aveva riportato una grave lacerazione alla gola, e nonostante le cure della cognata, che tentò di tamponare l’emorragia avvolgendo il collo della giovane dentro dei lenzuoli, spirò per l’enorme quantità di sangue perduto. Prima di esalare l’ultimo respiro fece in tempo ad indicare alla donna una tasca cucita nel soprabito nella quale aveva nascosto l’anello di fidanzamento e i suoi pochi preziosi. Oreste era riuscito a scampare al macello fingendosi morto, era infatti copiosamente macchiato di sangue e non riusciva a reggersi in piedi per i numerosi colpi di arma da fuoco che lo avevano raggiunto. Tenendo sempre in braccio il figlio, che era terrorizzato e per questo motivo rifiutava di staccarsi dalla mamma, Bruna soccorse l’uomo cercando di disinfettargli le tante ferite con del vino preso in cantina.

Ad un certo punto rientrarono in casa dei militari, e la donna con il coraggio di una leonessa si scagliò contro di loro apostrofandoli con l’epiteto di “Assassini!”, e chiedendo a gran voce perché si fossero accaniti con tanta ferocia su dei civili indifesi. Uno di essi rispose freddamente: “Partigiani kaput tedeschi, tedeschi kaput partigiani”. Bruna replicò fuori di sé: “Sono questi i partigiani?!”, indicando con una mano i bambini, le fanciulle, le donne che erano stati oggetto della furia nazista, e nella foga afferrò l’uomo per la camicia ed iniziò a strattonarlo con forza per il bavero finendo per strapparne il tessuto. Di fronte a quella reazione il soldato manifestò un atteggiamento titubante, e la donna colse prontamente al volo quell’attimo di esitazione per implorare pietà per le persone che erano rimaste vive: “Salvaci, ti prego, salvaci!”, lo supplicò continuando a tenere in collo Alberto. Nel frattempo aveva fatto il suo ingresso nell’abitazione anche Giuseppe, che Bruna spacciò per il marito venuto a trovare la famiglia da lontano. Il militare disse: “Io buono… Io austriaco… Ma se il mio ufficiale mi ordina di ammazzarvi io devo farlo, altrimenti lui ammazza me”; poi si avvicinò ad un collega, e dopo aver confabulato in disparte con quest’ultimo accompagnò i tre verso un’uscita posteriore, raccomandando loro di incamminarsi nella direzione opposta a quella da dove erano giunti i soldati. La via suggerita dall’uomo era quella che portava alla fattoria della baronessa Banchieri, considerata una zona franca perché lì aveva sede il comando tedesco. Sulla strada verso la salvezza corse incontro ai tre Alfredo, che aveva trovato scampo proprio alla fattoria.

Qualche sprazzo di compassione
In mezzo a tanta crudeltà quel soldato si distinse per un gesto compassionevole che salvò la vita non soltanto a Bruna ed ai suoi cari, ma a svariate altre persone che dietro segnalazione della giovane furono soccorse, trasferite alla fattoria e in tal modo messe definitivamente al sicuro. Ci fu un altro tedesco che a pochi chilometri di distanza risparmiò Bruno, che si stava dirigendo a cavallo verso il Padule, con l’incarico di portare dei viveri ad Ezio, Nello e ad alcuni altri uomini che erano nascosti con loro. Il ragazzo infatti lungo il suo percorso incrociò una pattuglia dell’esercito germanico, al cui comando si trovava un militare che conosceva la famiglia Fagni ed era particolarmente in confidenza con Bruno. Appena lo vide, il capopattuglia gli intimò immediatamente di tornare indietro. Il ragazzo, che voleva assolvere il proprio compito, in un primo momento finse di obbedire all’ordine ricevuto girando l’animale, poi lo volse nuovamente in direzione della meta e manifestò l’intenzione di spronarlo a forzare il blocco. A quel punto il soldato si gettò addosso al cavallo, e guardando Bruno con gli occhi spiritati gli gridò di andare a casa e di non farsi rivedere, prendendo a calci la bestia per provocarne la corsa. Il tedesco sapeva bene che nel Padule era in corso un massacro, e non a caso molti uomini che vi si erano rifugiati furono assassinati. Fra questi vi fu anche Nello, che a differenza di Ezio uscì incautamente dal suo riparo e fu freddato insieme ad alcuni compagni da un manipolo di nazisti.

Lo scempio anche sui morti
Qualche ora dopo aver consumato l’eccidio, i soldati tornarono alla colonica dei Silvestri per darla alle fiamme, premurandosi di cospargere i corpi delle vittime con della paglia affinché finissero carbonizzati. Tra di esse c’era anche Anita, che era rimasta uccisa insieme alla sorella Ada, mentre il padre, Oreste, la madre, Maria Baronti, e l’altra sorella, Brunetta, erano riusciti a scampare alla morte. Anita era una ragazza di grande avvenenza, e nonostante fosse stata deturpata dalle ferite la sua bellezza fece evidentemente gola ai tedeschi, che la stuprarono dopo il suo decesso. Il fatto risulta accertato e non è frutto di illazioni, perché quando l’incendio fu domato e le salme vennero recuperate la ragazza fu trovata in un luogo a parte, con il corpo privo di ustioni ma con dei segni evidenti di violenza sessuale. Bruna Fagni la rivide il giorno successivo, quando si recò al cimitero per fare visita ai defunti di casa Silvestri, che nel frattempo vi erano stati trasportati. La giovane vi era stata trasferita esattamente come era stata rinvenuta, ovverosia priva di indumenti intimi e con la veste alzata sopra il ventre, parzialmente denudata e con il corpo e gli abiti pieni di sangue. Fu questo l’ennesimo scempio compiuto dai nazisti, che dimostrarono in tal modo di non avere rispetto neanche della morte.

“Ho paura delle divise: ancora oggi mi basta la vista di un vigile urbano …”
Alberto Pratolini ha conservato la memoria di questi avvenimenti attraverso i racconti della madre, donna di forte temperamento e di enorme coraggio, che con il suo eroico comportamento contribuì a salvare la vita di molte persone, e che fino al termine della sua lunga esistenza grazie alla sua mente lucidissima ha continuato a mantenere vivo il ricordo della tragedia vissuta. “Andavo a trovare la mamma tutti i giorni – ci racconta Alberto –, e tutti i giorni la trovavo con un libro in cui erano stati ripercorsi i fatti principali della strage del Padule”. Dando dimostrazione di grande senso civico Bruna nel 1947 offrì la sua testimonianza anche ai processi di Padova e di Firenze, mentre per motivi di salute legati all’età avanzata nel 2011 declinò l’invito di presentarsi a quello che si tenne nella capitale. Tra i tanti oggetti cari nella sua abitazione di via Roma, posta nel cuore di Carmignano, conservava una targa consegnatale nel 2001 dall’allora sindaco di Larciano, Roberta Beneforti, per sottolineare “l’alto valore civile e umano del suo impavido agire”. Nonostante la tenerissima età che aveva all’epoca dei fatti narrati, anche Alberto ha trattenuto qualcosa di quella spaventosa esperienza. “Rammento con esattezza il punto nel quale ci riunimmo a mio fratello, lo vedo ancora mentre corre verso di noi lungo la strada che dal casale dei Silvestri portava alla fattoria dei Banchieri, e so anche che appena ci fummo ricongiunti gli dissi: “Tato Edo… ‘anto ‘anghe… tutti ‘otti…”, segno che a dispetto dei miei venti mesi avevo compreso benissimo quello che era successo. Poi mi è rimasto il timore delle divise. Alfredo all’età di diciotto anni fece il suo ingresso all’Accademia Militare di Modena. Tutte le volte che tornava a casa con la sua tenuta per me era un tormento. Anche oggi mi basta vedere un semplice vigile urbano per provare una sensazione di disagio”. (Barbara Prosperi)

Guarda il documentario “Eccehomini – Ricordi di una strage” con le testimonianze di Bruna e Giuseppe Fagni

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