Il diario del Pontormo

Le memorie di un ipocondriaco

Oltre ai dipinti e ai disegni che sono giunti fino ai nostri giorni, per conoscere e comprendere a fondo la personalità e la psicologia del Pontormo disponiamo di una testimonianza utilissima e preziosa redatta interamente di suo pugno, ovvero il cosiddetto diario che egli compilò nell’ultimo triennio della sua vita, dal 7 gennaio del 1554 al 23 ottobre del 1556, quando aveva all’incirca sessant’anni. Nelle sue pagine egli annotò le sue abitudini, le consuetudini alimentari, i problemi di salute, le condizioni meteorologiche, le frequentazioni, e soprattutto l’andamento dei lavori riguardanti gli affreschi del coro della basilica fiorentina di San Lorenzo, l’impresa a cui dedicò gli ultimi dieci anni della sua esistenza e che lasciò incompiuta a causa della sua repentina scomparsa.
La riscoperta novecentesca
Quello che viene impropriamente indicato come diario in realtà è però una sorta di “libro di ricordi”, composto da sedici carte piegate in maniera arbitraria, che è oggi conservato all’interno di un volume miscellaneo (Codice Magliabechiano VIII 1490) custodito nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze insieme ad altri documenti di vario genere ed origine, la cui datazione risulta compresa tra il XVI e il XVIII secolo. Il nucleo costituito dai fogli autografi dell’artista, noto fin dai tempi antichi ma disperso nel corso dei secoli a causa di svariati passaggi di proprietà, fu riscoperto in età contemporanea nel 1902 dallo storico dell’arte romano Arduino Colasanti, uno dei fondatori e principali collaboratori tra l’altro dell’Enciclopedia Treccani.
La notorietà nel dopoguerra
Fu però il collega statunitense Frederick Mortimer Clapp a pubblicarlo per la prima volta in versione integrale nel 1916 in appendice alla monografia che egli dedicò al pittore, dal titolo “Jacopo Carucci da Pontormo. His life and work”. La popolarità e la fortuna editoriale dell’opera tuttavia si devono principalmente al critico d’arte e letterario fiorentino Emilio Cecchi, che nel 1942 firmò un bell’articolo in proposito sul “Corriere della Sera”, e successivamente ne curò la prima edizione integrale italiana nel 1956, a cui nei decenni ne sono seguite diverse altre.
Lo stato attuale
L’ordine delle carte che compongono il fascicolo risulta fortemente alterato da un errore di piegatura che si ritiene avvenuto nel Seicento, cioè nel periodo in cui presumibilmente vi è stata apposta l’iscrizione “Diario di Jacopo da Pontormo fatto nel tempo che dipingeva il coro di S. Lorenzo” (ma il manoscritto è stato indicato ed è conosciuto anche come “Il libro mio”), e ancora oggi permangono alcuni dubbi sull’esatta successione dei fogli, il cui stato di conservazione è modesto, soprattutto a causa della presenza di numerose macchie di umidità. Non vi è la certezza che l’artista abbia effettivamente iniziato le sue annotazioni nel 1554 e che non esistessero parti precedenti dello scritto, tuttavia è a partire da tale data che principiano gli appunti che sono arrivati fino a qui.
La “gran paura”
Così come si presenta allo stato attuale, il diario prende il via con una sezione incentrata su precetti di tipo sanitario e sulla descrizione di una anomalia climatica a cui si erano accompagnate delle epidemie che avevano profondamente impressionato il pittore. “Ne l’anno 1555, per la luna che cominciò di marzo e durò insino adì 21 d’aprile, in tucto quella luna naque infermità pestifere che amazorno dimolti huomini regolati e buoni e forse senza disordini, e a tucti si cavava sangue. Credo che gl’avenissi che el fredo non fu di genaio e sfogossi in questa luna di marzo, che si sentiva uno fredo velenoso sordo combattere con l’aria rinfocolata da la stagione de’ giorni grandi, che era come sentire frigere el fuoco ne l’aqua, tal che io sono stato con gran paura”.
Un artista ipocondriaco
Benché all’epoca per l’inadeguatezza delle conoscenze scientifiche, delle cure mediche e delle terapie farmacologiche contrarre anche una semplice influenza fosse un rischio potenzialmente letale, è risaputo che il Pontormo era ipocondriaco, e non a caso il manoscritto è costellato di minuziose descrizioni di malesseri, di cui si riportano a titolo esemplificativo alcuni tra i tanti esempi tralasciando quelli più repellenti. “Giovedì mattina – scrive il pittore – mi venne uno capogirlo che mi durò tucto dì, e dapoi sono stato tuctavia maldisposto e del capo debole” (15 marzo 1554); “…lunedì mattina mi si smosse el corpo con dolore: leva’mi e poi per esser fredo e vento ritornai ne leto e stettivi insino a hore 18, e in tucto dì poi non mi senti’ bene. Pure la sera cenai un poco di gota lessa con delle bietole e burro, e sto così senza sapere quello che à essere di me” (31 marzo 1555); “Sabato mi levai molto male disposto, cenai con Piero poco e senza voglia e la nocte ebi la febre con gran fuoco addosso, e non dormi’ mai” (8 giugno 1555).
Una serie infinita di malanni
E ancora: “…ho cenato in Sancto Lorenzo e beuto un poco di greco. Non che mi paia stare bene, perché ogni tre hore mi viene lo strugimento” (11 luglio 1555); “Lunedì mattina havevo e febre e lo stomaco sdegnato; cenai che non mi piaque nulla” (12 agosto 1555); “…sabato cenai uno cavolo buono cotto di mano mia e la notte mi levai una schegia d’un dente e mangio un poco meglio” (25 ottobre 1555); “Adì 20 detto: …la sera mi lavai e piedi e percossi ne l’uscio con uno calcio tale che io mi feci male e duolmi insino a ogi, che siàno adì 25” (25 luglio 1556); “…ma io ho male alla gola, cioè non posso sputare una cosa apicata che io soglio avere” (6 ottobre 1556).
Una mensa con un solo coperto
Per quanto riguarda il regime dietetico, bisogna riconoscere che il Pontormo si alimentava in maniera veramente parca, abbondando con il pane ma scarseggiando spesso con il companatico, in special modo con la carne, forse per avarizia oppure per il semplice fatto che probabilmente non aveva voglia di acquistare alimenti di pregio e di prepararli con cotture elaborate solamente per sé, considerato che non aveva famiglia e che sotto il suo tetto albergava saltuariamente soltanto il suo garzone Battista, un ragazzo di neanche vent’anni che non perdeva occasione per disertare l’abitazione del maestro, come ricorda la nota scritta in data 9 luglio 1555: “El mio Batista andò di fuora la sera e sapeva che io stavo male, e non tornò, talché io l’arò tenere a mente sempre”.
Alimenti semplici
Un alimento che ricorre di frequente lungo le pagine del diario sono le uova e soprattutto il cosiddetto “pesce d’uovo”, ovverosia una frittata d’uovo a cui veniva conferita una forma allungata che ricordava la sagoma di un pesce; e poi insalate di borragine (“borana”), indivia (“invidia”), lattuga, radicchio; bietole; cavolo; minestra; formaggio (“cacio”); agnello, capretto, maiale, ma in molti casi ci si riferisce alle parti meno nobili dell’animale (“…cenai in casa uno arnioncino – cioè un piccolo rognone – d’agnello”; “…cenai una meza testa di cavretto”; “…cenai quella lingua di porco”), ad eccezione delle occasioni in cui vengono espressamente menzionate l’arista, la vitella, il pollame e la selvaggina, consumati però alla mensa degli amici, primo fra tutti il fedele Bronzino, l’allievo prediletto che invitava sovente l’anziano maestro a pranzo e a cena, particolarmente nei giorni di festa come la domenica, la Pasqua, l’Ascensione e via elencando.
A casa del Bronzino per le feste
“Adì 11 di marzo 1554 in domenica mattina desinai con Bronzino pollo e vitella e senti’mi bene”; “Domenica, che fu la mattina di Pascua e la Donna – Maria Santissima Annunziata, perché quell’anno la festa della Resurrezione di Cristo cadde il 25 marzo –, andai a desinare con Bronzino e la sera cena’vi” (25 marzo 1554); “Giovedì, che fu el Corpus Domini, desinai con Bronzino: ebi del greco – il riferimento è ad un particolare tipo di vino ricavato da un vitigno originariamente importato della penisola ellenica –, carne e pesci” (24 maggio 1554); “Lunedì, che fu la vigilia della pasqua – la cosiddetta Pasqua di ceppo, ovvero il Natale –, cenai in casa Bronzino e insino a la sera stetti e cenai una acegia – una beccaccia –; la seconda festa – cioè Santo Stefano – la mattina e la sera mangiai quivi, e la sera di sancto Giovanni – evangelista – cenai con Daniello bene di quegli farciglioni – gallinelle acquatiche – e 8 once di pane” (27 dicembre 1554).
Un pittore religioso
Da questi passi oltre alle frequentazioni dell’artista (il pittore Agnolo di Cosimo detto il Bronzino; il mazziere Daniele di Bartolomeo, cognato del pittore Alessandro Allori, allievo del Bronzino; il letterato Benedetto Varchi; il provveditore Luca Martini; ed altri ancora) si evince che che il Pontormo osservava scrupolosamente le feste comandate, e da altri emerge anche che era estremamente attento a seguire i precetti della Chiesa. Nella parte iniziale del manoscritto egli raccomanda a se stesso di “ingegnarsi per le 4 Tempora oservare e digiuni comandati” (l’artista allude ai tre giorni di digiuno – mercoledì, venerdì e sabato – che si dovevano praticare quattro volte l’anno, ovvero dopo la terza domenica d’Avvento, dopo la prima domenica di Quaresima, dopo la prima domenica di Pentecoste e dopo la festa dell’Esaltazione della Santa Croce); e non a caso in data 19 dicembre 1554 annota: “Mercoledì sera che sono le digiune – il primo giorno delle Tempora d’Avvento – non cenai”.
In giro per chiese e santuari
La domenica si recava regolarmente alla messa: il 25 agosto 1555 scrive: “…domenica desinai con Bronzino e non udi’ messa”, come a sottolineare un’eccezione; oltre alla basilica della Santissima Annunziata, che era la sua parrocchiale, frequentava anche la cattedrale: “Domenica 21 fui trovato da Bronzino in Sancta Maria del Fiore e promessi d’andare a desinare seco” (21 giugno 1556); per le feste si asteneva dal lavoro, ed in particolare in occasione di quelle del Natale del 1555 si recò in compagnia di alcuni amici in diverse chiese e santuari nei dintorni di Firenze: “Adì 26 andamo a San Francesco” – a Fiesole –; “Adì 27 andamo Bronzino e io a Monte Oliveto”; “Adì 28 andamo a Volsanminiato”; “Adì 29 domenica mattina andamo insino a San Domenico” – ancora a Fiesole –. Il 4 ottobre del 1556 in onore del poverello d’Assisi trascorse tutta la giornata a Fiesole: “4, domenica, andai a San Francesco e stetti tucto el dì”. La settimana successiva si trovava invece alla Certosa del Galluzzo, dove circa trent’anni prima aveva affrescato alcuni episodi della “Passione di Cristo”: “Adì 11, domenica, andai a Certosa e la sera cenai”.
Un carattere ombroso
Su tutte le altre citate nel diario spicca prepotentemente la figura del Bronzino, ma pur essendo legato all’amico ed allievo da un affetto speciale il pittore non mancava talvolta di riservargli un trattamento poco lusinghiero, dal momento che quando era di cattivo umore lo congedava in maniera scortese oppure gli si negava, come indicano inequivocabilmente due brani dello scritto, datati entrambi 1556: “Domenica venne Bronzino, Daniello e Ataviano a casa, e io comperai canne e salci per l’orto; e Bronzino mi voleva a desinare, e turbandosi mi disse: “e’ pare che voi vegnate a casa uno vostro nimico”, e lasciòmi ire” (22 marzo); “15, domenica, fu pichiato da Bronzino e poi el dì da Daniello: non so quello che si volessino” (15 marzo).
Un “casamento fantastico e soletario”
Il fatto che il Pontormo non rispondesse e non aprisse agli amici trova una puntuale conferma nella biografia che Giorgio Vasari gli dedicò nella seconda edizione delle “Vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori” (1568), dove ad un certo punto parlando della casa dell’artista egli la descrive con le seguenti parole: “…ha più tosto cera di casamento fantastico e soletario che di ben considerata abitura: con ciò sia che alla stanza dove stava a dormire e tal volta a lavorare si saliva per una scala di legno, la quale entrato che egli era, tirava su con una carrucola, a ciò niuno potesse salire da lui senza sua voglia o saputa”. Del resto oltre ad averlo conosciuto personalmente il Vasari aveva raccolto molte notizie, confidenze e indiscrezioni sul pittore proprio dal Bronzino, che conosceva il vissuto e il carattere del proprio maestro come pochissimi altri (“…dice il Bronzino ricordarsi avere udito da esso Iacopo Puntormo…”).
La porzione di maggior interesse del diario con ogni probabilità è però quella che tratta degli affreschi di San Lorenzo, il grande ciclo pittorico che impegnò il Pontormo fino alla morte e di cui oggi non rimangono che alcuni disegni preparatori. (Continua – Barbara Prosperi)

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