Leonardo da Vinci, gli ultimi anni

 

Nell’estate del 1508 Leonardo si trasferì per la seconda volta in pianta stabile nel capoluogo lombardo, dietro invito di Luigi XII. Durante questo nuovo soggiorno completò insieme a Giovanni Ambrogio de Predis la seconda versione de “La Vergine delle rocce”, eseguì la “Sant’Anna, la Vergine, il Bambino e l’agnellino” e progettò un nuovo monumento equestre da dedicare a Gian Giacomo Trivulzio, considerato l’artefice della conquista di Milano da parte dei francesi. Nel frattempo continuò i suoi studi e i suoi esperimenti nei campi dell’urbanistica, dell’idraulica, della geologia, della geometria, della matematica e dell’anatomia, questi ultimi sotto la sapiente guida di Marcantonio della Torre, giovane ma preparatissimo professore dell’università di Pavia, con cui entrò in contatto nel 1510. Tornò brevemente a Firenze soltanto per rivendicare l’eredità lasciatagli dall’amato zio Francesco, che i fratelli tentarono invano di usurpargli. Visitò poi Como, si spinse fino alle pendici del Monte Rosa, poi in compagnia del Salaì e del matematico Luca Pacioli soggiornò a Vaprio d’Adda, nei pressi di Milano, dove Gerolamo Melzi gli affidò il giovane figlio Francesco, che fu l’ultimo e il più caro dei suoi allievi, che lo seguì e si prese cura del maestro fino al momento della sua morte. Nel 1511 si spense il suo sostenitore, Carlo d’Amboise, e l’anno seguente la Lega Santa cacciò i francesi dal ducato, che tornò nelle mani degli Sforza.

Nell’incertezza della situazione politica, nel 1513 Leonardo partì alla volta di Roma, portando con sé gli allievi prediletti, ovvero il Salaì e il Melzi, e appena giunto nella città capitolina venne accolto da Giuliano de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico e fratello di papa Leone X, che gli accordò la sua protezione e gli ottenne un alloggio negli appartamenti del Belvedere in Vaticano. L’artista approntò un progetto per il prosciugamento delle paludi pontine, proseguì i suoi studi scientifici, incontrò nuovamente Michelangelo, Raffaello e altre sue vecchie conoscenze come ad esempio Giuliano da Sangallo e Donato Bramante. Realizzò alcuni dipinti oggi perduti tra i quali la “Leda col cigno”, all’epoca molto noto e celebrato, conosciuto attraverso alcune repliche, e oltre a continuare le dissezioni anatomiche appuntò il suo interesse sugli specchi ustori, che secondo i suoi progetti dovevano servire a convogliare i raggi del sole su una cisterna, affinché l’acqua calda contenuta al suo interno potesse servire alla propulsione di svariati tipi di macchine. Entrambe le attività gli procurarono però dei guai: prima Leonardo entrò in contrasto con i vetrai tedeschi che lavoravano alle sue dipendenze, poi venne accusato di negromanzia con una denuncia anonima, avanzata forse dai maestri con i quali aveva litigato, e papa Leone gli impedì di proseguire gli studi di anatomia all’ospedale di Santo Spirito. Morto Giuliano de’ Medici, che si spense nel 1516 per la tubercolosi che lo consumava da alcuni anni, l’artista si trovò privo di protezione e avvertì nuovamente la necessità di cambiare ambiente.

Decise allora di accettare l’invito di Francesco I, che aveva conosciuto fugacemente a Bologna, in occasione di un viaggio in cui aveva accompagnato Leone X e Giuliano de’ Medici, e lasciò l’Italia per trasferirsi in Francia. Vi arrivò nella primavera del 1517, insieme all’allievo Francesco Melzi e al servitore Battista de Villanis, ma senza il Salaì, che invece si fermò a Milano, e venne ospitato nel castello di Cloux (oggi Clos-Lucé), nei pressi Amboise, nella valle della Loira; il sovrano, che era un uomo colto e amante dell’arte, animato da una forte passione soprattutto nei confronti di quella italiana, lo insignì del titolo di primo pittore, scultore, architetto e ingegnere del regno, e senza chiedergli niente in cambio gli assegnò una pensione annua di 1000 scudi. Quelli trascorsi in Francia furono probabilmente per Leonardo gli anni più sereni della sua vita, durante i quali poté dedicarsi ad approfondire i suoi interessi e ad organizzare i suoi scritti in vista della pubblicazione di svariati trattati. Nonostante una paralisi che gli aveva colpito la mano destra, conservò fino alla fine la sua lucidità e continuò a lavorare con la sinistra.

Dalla relazione scritta dal segretario del cardinale Luigi d’Aragona, Antonio de Beatis, che gli fece visita il 10 ottobre del 1518, sappiamo che l’artista aveva portato con sé – e ogni tanto presumibilmente vi lavorava – almeno tre dipinti: “uno di certa donna fiorentina facta di naturale ad istantia del quondam mag.co Juliano de Medici – forse la “Gioconda” –, l’altro de San Joane Bap.ta giovane – il “San Giovanni Battista” del Louvre – et uno de la Madona e del figliolo che stan posti in grembo di S.ta Anna – la “Sant’Anna, la Vergine e il Bambino con l’agnello” ancora del Louvre –, tucti perfectissimi”. Tutti e tre i quadri in seguito passarono legittimamente nella collezione d’arte di Francesco I, che li acquistò regolarmente dallo stesso Leonardo oppure dai suoi discepoli dopo la morte del maestro. Sentendosi vicino alla fine, il 23 aprile del 1519 l’artista redasse il proprio testamento davanti al notaio Guglielmo Boreau, alla presenza di cinque testimoni e del fedele Francesco Melzi, esecutore testamentario a cui assegnò il lascito più importante, costituito dai suoi disegni e dai suoi scritti; al Salaì e al de Villanis lasciò il terreno che egli aveva nelle vicinanze di Milano; alla governante Maturine dei panni e due ducati; ai fratelli fiorentini invece i 400 scudi depositati a Santa Maria Nuova ed un podere a Fiesole. Dispose di essere sepolto nella collegiata di Saint-Florentin, scortato da un corteo funebre composto da cappellani, frati minori e sessanta poveri, ciascuno munito di una torcia, inoltre chiese la celebrazione di tre messe solenni, con la presenza di diacono e suddiacono, e di trenta messe basse, a San Gregorio, a Saint-Denis e nella chiesa dei francescani.

Giorgio Vasari nella prima edizione delle “Vite” (1550) nella biografia dedicata a Leonardo scrisse a proposito dell’artista che “fece nell’animo un concetto sì eretico che e’ non s’accostava a qualsivoglia religione, stimando per avventura assai più lo esser filosofo che cristiano”, alludendo probabilmente ad una posizione atea o agnostica dell’uomo, ma eliminò poi questo passo dalla seconda edizione dell’opera (1568), data alle stampe poco dopo la conclusione del Concilio di Trento (1563). Qualunque fosse la posizione di Leonardo, è certo che nell’ultima parte della vita si accostò ai sacramenti e volle morire da buon cristiano, confessandosi e comunicandosi nei giorni immediatamente precedenti la morte. La leggenda, puntualmente rappresentata da alcuni pittori, narra che a raccogliere il suo ultimo respiro fu Francesco I, che lo prese tra le braccia nel momento del trapasso, tuttavia sappiamo che questo racconto non corrisponde a verità, dal momento che quel giorno il re non si trovava ad Amboise ma a Saint-Germain-en-Laye.

Fu Francesco Melzi a comunicare la notizia del decesso di Leonardo ai suoi fratelli, attraverso una lettera nella quale scrisse: “Ser Giuliano e fratelli suoi honorandi, credo siate certificati della morte di Maestro Lionardo fratello vostro, e mio quanto optimo padre, per la cui morte sarebbe impossibile che io potesse esprimere il dolore che io ho preso; e in mentre che queste mie membra si sosterrano insieme, io possederò una perpetua infelicità, e meritatamente perché sviscerato et ardentissimo amore mi portava giornalmente. E’ doluto ad ognuno la perdita di un tal uomo, quale non è più in podestà della natura”. Secondo le sue volontà Leonardo fu inumato nel chiostro della collegiata di Saint-Florentin, che subì delle pesanti devastazioni circa cinquant’anni più tardi, al tempo delle guerre di religione tra cattolici e ugonotti, e alla fine del Settecento, in piena epoca rivoluzionaria, dopodiché venne demolita in età napoleonica nei primi anni dell’Ottocento.

Grazie a documenti d’archivio siamo a conoscenza del fatto che le pietre sepolcrali e le lapidi della chiesa furono utilizzate per restaurare il maniero di Amboise, che il piombo delle bare venne fuso per essere reimpiegato in altro modo e che un considerevole numero di scheletri fu abbandonato fra le rovine finché un giardiniere, turbato davanti allo spettacolo di alcuni bambini che giocavano a birilli con le ossa, le ricoverò pietosamente in un angolo di un cortile. Va precisato che non tutte le bare vennero sventrate a onor del vero, ma del resto in quel tempo già si ignorava dove fosse finita la salma dell’artista, tanto da far ritenere che i resti di Leonardo fossero stati irrimediabilmente dispersi. Nel 1863 però il poeta Arséne Houssaye iniziò a condurre degli scavi nel luogo in cui una volta sorgeva Saint-Florentin e scoprì un imponente scheletro intatto, vicino al quale si trovavano alcuni frammenti di una lastra che recitava LEO DUS VIN, ad indicare forse la sepoltura di “Leonardus Vincius”. Circa un decennio più tardi, nel 1874, le spoglie prima ritrovate, poi nuovamente smarrite, infine ancora ritrovate, furono sepolte nel complesso del castello di Amboise, all’interno della cappella di Saint-Hubert, con una targa sulla quale venne riportato che quelli erano i presunti resti del pittore.

La sua eredità artistica, letteraria e scientifica fu gelosamente custodita dal Melzi, che una volta tornato in Italia, nella villa di famiglia a Vaprio d’Adda, assemblando gli appunti scritti dal maestro pubblicò il “Trattato della pittura”, inoltre divise per argomento e numerò tutto il corpus degli scritti e dei disegni di Leonardo. Alla sua morte tuttavia i figli cedettero il patrimonio conservato con tanta cura dal padre allo scultore Pompeo Leoni, artista di corte nella Spagna di Filippo II, e da allora ebbe inizio la dispersione dell’opera dell’artista, smembrata, mutilata e disseminata ai quattro angoli del mondo, attualmente ridotta a circa un terzo del nucleo di partenza e divisa tra Italia, Francia, Spagna, Inghilterra e Stati Uniti d’America. (Barbara Prosperi)

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