La peste, il Datini e il Pontormo

Nel 1630 anche Carmignano fu colpita

L’emergenza sanitaria legata alla diffusione del Covid-19 ha riportato alla mente di tanti le grandi epidemie del passato, prima fra tutte la famosa influenza spagnola che tra il 1918 e il 1920 colpì una larga fascia della popolazione mondiale. Nel corso del tempo però sono state molte le malattie di origine batterica e virale che a più riprese hanno piagato il globo, a cominciare dalla peste che imperversò soprattutto nel continente europeo per circa quattro secoli, presentandosi con inesorabile ciclicità. Il territorio mediceo non ne fu immune, e a questo proposito la storia ci ha tramandato anche le vicende di alcuni personaggi i cui nomi sono vincolati a quello di Carmignano, fra i quali spiccano Francesco Datini, il mercante pratese che era solito consumare il vino di queste colline, e Jacopo Pontormo, l’autore della celebre “Visitazione” custodita nella chiesa di San Michele a Carmignano.

Sebbene nei tempi antichi siano stati registrati diversi episodi di epidemie passate alla storia con il nome di peste, come ad esempio quella che si abbatté sull’Atene di Pericle nel 430 a.C., non possiamo stabilire con certezza che si trattasse effettivamente di malattie infettive imputabili al batterio denominato Yersinia pestis (in passato detto anche Pasteurella pestis), un bacillo che pare si trasmettesse dai topi agli uomini per mezzo delle pulci, mentre sembra plausibile il suo coinvolgimento a partire dall’epidemia che flagellò la Costantinopoli di Giustiniano nel 541 d.C., e che dalla capitale dell’impero bizantino si propagò ad ondate successive per tutta l’area mediterranea fino al 750 circa, mietendo dai cinquanta ai cento milioni di vittime. Essa viene considerata la prima pandemia della storia, anche se la più famosa e devastante viene ritenuta quella che dilagò in Europa intorno alla metà del XIV secolo, nota come peste nera e deflagrata con violenza in Italia nel 1348.

Importata dalla Cina settentrionale attraverso l’impero mongolo, si diffuse progressivamente in Turchia, Grecia, penisola balcanica ed Egitto per poi arrivare in Sicilia e da lì a Genova nel 1347, ma ebbe la sua massima espansione in Italia l’anno seguente, risparmiando parzialmente il solo ducato di Milano e dispiegando tutta la sua virulenza nella città di Firenze, dove Giovanni Boccaccio fu testimone diretto del drammatico avvenimento e lo utilizzò come spunto per comporre il “Decamerone”. Proprio nel 1348 a Prato morirono falcidiati dalla peste nera i genitori, Marco e Vermiglia, e due fratelli di Francesco Datini, che all’età di appena tredici anni vide sparire tutta la famiglia d’origine ad eccezione del fratello Stefano, insieme al quale venne prima affidato alla tutela di un parente, Piero di Giunta del Rosso, e dopo accolto sotto il tetto di Piera di Pratese Boschetti, che si occupò dei due ragazzi finché non iniziarono a rendersi autonomi. Con ogni probabilità questa dolorosa esperienza temprò il carattere di Francesco e lo fece maturare avanti tempo, perché dopo un breve periodo di praticantato in ambito mercantile a soli quindici anni il giovane prese la decisione di partire alla volta di Avignone in cerca di fortuna, dando prova di un coraggio, una determinazione e uno spirito di intraprendenza indubbiamente non comuni. Con il senno di poi si può dire che i fatti gli diedero pienamente ragione.

Dopo aver invaso tutta l’Europa, nel 1353 i focolai persero forza e si ridussero gradualmente fino a scomparire, non prima però che l’epidemia uccidesse circa un terzo della popolazione continentale, provocando presumibilmente tra i dieci e i venti milioni di decessi. Ciò nonostante, il morbo si ripresentò periodicamente per tutto il secolo, sfiancando in special modo le città, anche se in parte vennero intaccate anche le campagne. Nel 1895 nelle “Memorie storiche del castello e comune di Carmignano” il marchese Antonio Ricci scrive che alla fine del Trecento la Toscana era così stremata dalle guerre, dalla peste e dalla fame che avevano imperversato negli ultimi decenni che nel 1399 la confraternita dei Bianchi di Pistoia, dei quali faceva parte anche un non meglio precisato Fra’ Giovanni da Carmignano, organizzò una lunga serie di processioni penitenziali in molte zone della regione, e dietro invito della popolazione locale passò anche da Carmignano, sotto la guida del vescovo Andrea Franchi, accompagnata da Fra’ Giovanni e scortata dal celebre Crocifisso di Ripalta, che fu portato intorno alle mura della rocca e si dice che in quell’occasione operasse numerose guarigioni miracolose.

Per gran parte del XV secolo la peste continuò a colpire ciclicamente i grandi centri europei ad intervalli di tempo compresi tra i sei e i dodici anni, poi a partire dal 1480 la frequenza cominciò a diminuire, attestandosi su periodi che oscillavano tra i quindici e i venti anni. Tra le tante epidemie se ne ricorda una che si abbatté su Firenze tra il 1522 e il 1523, e che spinse il Pontormo a cercare riparo presso la Certosa del Galluzzo, a circa cinque chilometri dal capoluogo toscano. L’artista, che in un breve volgere di anni era stato duramente provato dalla scomparsa di tutti i suoi familiari, aveva sviluppato nel tempo una forte ipocondria e una notevole misantropia, e nell’ambiente della certosa trovò non soltanto un luogo dove sfuggire al contagio ma una vera e propria oasi di pace dove poter meditare, creare e sperimentare in tutta tranquillità, tanto che continuò a frequentarla anche dopo il suo rientro in città. Per i monaci del Galluzzo tra il 1523 e il 1525 il pittore realizzò cinque affreschi raffiguranti altrettante “Storie della Passione di Cristo”, ispirate alle incisioni dell’artista tedesco Albrecht Dürer, originariamente collocate nel chiostro grande del complesso architettonico e attualmente ricoverate in grave stato di degrado all’interno della pinacoteca, e una “Cena in Emmaus” oggi esposta alla Galleria degli Uffizi, ed altre opere ancora che allo stato attuale si ritengono perdute.

La straordinaria sensibilità del Pontormo, unita al suo terrore delle malattie, lo rendeva particolarmente attento ai sintomi che manifestava il suo corpo e ricettivo nei confronti delle manifestazioni atmosferiche, che annotava scrupolosamente in quello che i posteri hanno impropriamente intitolato “Diario”, e che ci ha tramandato alcuni brani molto interessanti e significativi. All’inizio della narrazione il Carucci descrive una anomalia climatica cui si era associata un’epidemia che era rimasta profondamente impressa nella mente del pittore, che racconta: “Ne l’anno 1555, per la luna che cominciò di marzo e durò insino adì 21 d’aprile, in tucto quella luna naque infermità pestifere che amazorno dimolti huomini regolati e buoni e forse senza disordini, e a tucti si cavava sangue. Credo che gl’avenissi che el fredo non fu di genaio e sfogossi in questa luna di marzo, che si sentiva uno fredo velenoso sordo combattere con l’aria rinfocolata da la stagione de’ giorni grandi, che era come sentire frigere el fuoco ne l’aqua, tal che io sono stato con gran paura”. L’ipocondria dell’artista è risaputa, tuttavia leggendo queste righe è opportuno riflettere sul fatto che le conoscenze mediche e farmacologiche dell’epoca rendevano assolutamente legittimo temere le malattie, considerato che in quei tempi non era raro morire per un’influenza, e che alcune pratiche curative come ad esempio quella dei salassi spesso non facevano altro che aggravare le condizioni già critiche dei malati.

Un secolo più tardi la Toscana venne toccata anche dalla grande epidemia di peste del 1630, tristemente nota per la descrizione che Alessandro Manzoni ne fece ne “I promessi sposi”. Antonio Ricci ancora una volta racconta quale fu l’impatto sul nostro territorio, che venne raggiunto dal morbo nell’agosto di quell’anno dal versante pratese della regione: seguendo la narrazione delle sue “Memorie storiche” si apprende che grazie alla chiusura dei confini il comprensorio carmignanese riuscì a contenere l’epidemia entro l’autunno, tanto che nel mese di ottobre il granduca Ferdinando II de’ Medici organizzò una grande battuta di caccia che interessò le località di Poggio a Caiano, Seano, Bacchereto e si spinse fino a Sant’Alluccio. Sul declinare dell’anno però, mentre Firenze era stata ripulita da una scrupolosa quarantena, nelle zone del contado si verificò una recrudescenza dell’infezione, e così a Carmignano venne inviato un commissario di sanità, un esponente della famiglia Guicciardini, accompagnato da una scorta armata; giunto nei pressi del castello, incaricò il cerusico Bastiano Pilorci di visitare “ogni casa e persona del Comune, denunciando i malati e tutti coloro che gli sembrassero sospetti”, dopodiché gli ordinò di sprangare le case dei contagiati affinché nessuno potesse uscirne. Messer Bastiano non poté far altro che sbarrare dall’esterno le abitazioni degli infetti, a cui si premurò di portare con regolarità il pane per i pasti quotidiani, e quando la malattia aveva compiuto il suo corso mortale le riapriva per permettere il pietoso rito della sepoltura dei defunti. (Barbara Prosperi)


In questo periodo anche le Gallerie degli Uffizi sull’omonima pagina Facebook hanno ricordato il soggiorno del Pontormo alla Certosa del Galluzzo, proponendo l’analisi della “Cena in Emmaus” di cui si è detto sopra; per vedere il filmato è sufficiente cliccare sul seguente link: https://www.facebook.com/uffizigalleries/videos/1107048132962161/.

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