Così si festeggiava San Giuseppe

Sacra Famiglia e il pranzo di magro

Fino ad una quindicina d’anni fa nel nostro territorio, e più precisamente nel borgo di Castelvecchio, era in uso un’antica tradizione, nata probabilmente parecchi secoli addietro, che intendeva rendere omaggio alla figura di San Giuseppe, la cui ricorrenza era un tempo celebrata a livello nazionale e molto sentita dalla popolazione. Nel secolo scorso erano le famiglie dei Chiti e degli Attucci (poi più di recente soltanto quest’ultima), che per lungo tempo avevano occupato due coloniche facenti capo alla fattoria posta sulla collina, ad organizzare la festa in cui tutti gli anni, in occasione del 19 marzo, veniva puntualmente onorata la Sacra Famiglia, grazie ad un rituale che coniugava la religione con la socialità e la gastronomia.

La mattina poco prima delle 11 arrivavano a Castelvecchio un uomo, una donna, un bambino di età inferiore ai sei anni ed un’anziana che rappresentavano San Giuseppe, la Madonna, Gesù e Sant’Anna; i quattro, che appartenevano al popolo di Carmignano, venivano scelti tra le persone più bisognose della comunità, non dovevano essere legati da vincoli di parentela e dovevano essere comunicati. Alle 11 in punto San Giuseppe dava inizio alla recita del rosario, poi arrivato a metà si metteva a tavola insieme ai familiari per consumare il cosiddetto pranzo di magro, un desinare a base di sette pietanze dal quale era rigorosamente bandita la carne, composto da minestra o riso sui fagioli, fagioli lessi, cavolo fiore lesso, baccalà lesso o con il pomodoro, baccalà in zimino con gli erbi, trote con il pomodoro o palombo fritto e per finire frittelle.

I quattro consumavano il pasto in disparte, intorno ad un piccolo tavolo apparecchiato solo per loro, mentre un nutrito numero di ospiti, generalmente una quarantina, assisteva al desinare. Nella stanza, dentro una nicchia, veniva allestito un piccolo altare con l’immagine della Sacra Famiglia e la statuetta di San Giuseppe. Terminato il pranzo, veniva ultimato il rosario e poi i quattro se ne andavano portando con sé un pentolino con il cibo avanzato. Sopra il coperchio veniva messo un panino di San Giuseppe, cotto nel forno di casa e marchiato con le iniziali della famiglia. Solo a quel punto si mettevano a tavola gli ospiti, ai quali venivano servite le stesse sette portate di magro, e da quel momento in poi per tutta la durata del pomeriggio cominciavano ad arrivare gli amici del paese per intrattenersi in conversazione, mangiare le frittelle e bere il vino di Castelvecchio.

Lungo la strada che scendendo verso Seano collega Carmignano a Castelvecchio era un continuo andirivieni di persone, generalmente dalle centocinquanta alle duecento, che cessava soltanto al calare delle tenebre. Finché c’era luce il flusso della gente continuava senza sosta, come in una sorta di lunga e ininterrotta processione, e diventava particolarmente consistente soprattutto nei periodi in cui l’indigenza e la fame si facevano sentire in maniera pressante. Come in altre parti d’Italia, in cui vigeva la consuetudine di offrire dei banchetti alle frange meno abbienti della popolazione, probabilmente anche qui il rito era nato in riferimento all’ospitalità che venne negata a San Giuseppe, quando andò in cerca di un riparo per Maria, in procinto di dare alla luce il Salvatore.

Le famiglie Chiti e Attucci, che nel Novecento si erano fatte carico dell’organizzazione della festa, non sapevano spiegarne l’origine e il significato esatto, ma, oltre ad indicare nella tradizione una forma di devozione nei confronti di San Giuseppe, sottolineavano il fatto che, in base ai loro trascorsi, il mancato rispetto della consuetudine era portatore di gravi avvenimenti. Mario Chiti, scomparso da alcuni anni, era infatti solito raccontare la disgrazia che era occorsa a suo zio Gaspero, quando nel 1919 aveva disertato i festeggiamenti. Alla vigilia della ricorrenza la proprietaria del podere lo aveva convocato a Firenze per il giorno seguente, affinché si presentasse all’appuntamento fissato con il contabile che si occupava dei saldi. Gaspero aveva dato la sua disponibilità, e nonostante le rimostranze del fratello, che lo aveva pregato di non mancare alla festa, la mattina del 19 era partito alla volta di Firenze per onorare l’impegno preso. Arrivato però in via de’ Tornabuoni, si scontrò con un tram, e una stanga del carro trainato dal cavallo lo uccise trafiggendogli lo stomaco.

Un avvenimento nefasto nel 1920 investì anche gli Attucci, che quell’anno avevano deciso di non rispettare l’usanza. La mattina di San Giuseppe gli uomini si recarono come al solito nella stalla per dare da mangiare agli animali, tra i quali spiccavano quattro grossi vitelli da macello. Appena entrati li trovarono tutti e quattro legati alla mangiatoia, con tutte le gambe spezzate. “Ecco perché questa tradizione non è stata mai lasciata finché siamo stati lì in quella casa”, ricordava Mario Chiti in una testimonianza rilasciata per una ricerca sulla storia del territorio, e aggiungeva degli aneddoti sulla preparazione del pranzo di magro e la cottura delle frittelle, dispendiose sia per il tempo sia per le materie prime impiegati: “Si faceva due caldaie di erbi. Per friggere le frittelle ci voleva più di cinque litri d’olio”. “La festa si fece anche in tempo di tessera – rammentava anche, riferendosi agli anni in cui erano in vigore le carte annonarie –. Allora sì! Allora la gente veniva per mangiare, povera gente!”. (Barbara Prosperi)

 

La maggior parte delle notizie riportate nell’articolo e le testimonianze di Mario Chiti sono tratte da Fabio Panerai, Carmignano. Quotidianità e istituzioni tra Ottocento e Novecento, Signa, Masso delle Fate, 1999.

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