Fiorello Fabbri è nato a Prato il 13 giugno 1928 ed ha attualmente 91 anni. Fin da ragazzo, all’età di quindici anni, è stato attivo nella Resistenza italiana ed ha fatto parte della brigata Vannini, un gruppo di azione partigiana (GAP). Dopo la fine della guerra è stato nominato segreterario dell’ANCI e poi è stato presidente dell’ANPI di Prato, di cui tutt’oggi riveste il ruolo di vicepresidente. Nel 2018 è stato pubblicato il libro“Né fascista né soldato. Fiorello Fabbri un partigiano per la libertà” dell’autrice Giusy Caminiti che ha trascritto le sue memorie e che sarà presentato sabato 27 aprile 2019 alle 16.30 nella sala consiliare del palazzo comunale a Carmignano.
Da bambino che cosa sapeva del Fascismo?
Sono nato in una famiglia antifascista: mio padre, Fabbrino, era un perseguitato politico. Non aveva la tessera del Fascio e questo gli impediva di svolgere liberamente il suo mestiere di muratore, per cui era costretto ad arrangiarsi con piccoli lavoretti per tirare avanti. In più ogni volta che a Prato veniva un gerarca fascista, mio padre veniva portato in carcere dove rimaneva anche per alcuni giorni. Proprio lui mi ha indirizzato a seguire una strada diversa dal Fascismo.
Come ha iniziato la sua attività nella Resistenza?
Durante la guerra Prato era bombardata, per cui le famiglie che avevano parenti in campagna sfollavano altrove per sfuggire ai bombardamenti. La mia famiglia era una di queste: noi ci eravamo trasferiti da uno zio a Narnali e lì operava un antifascista, un certo Lemno Vannini. Avevo quindici anni quando ho iniziato l’attività: con Vannini ed altri ragazzi abbiamo messo su un gruppo di azione partigiana, la brigata Vannini, che era un distaccamento cittadino della formazione Bogardo Buricchi, di cui ho fatto parte dal novembre del 1943 fino al settembre del 1944.
Una volta formata la brigata Vannini, quali azioni cercavate di perseguire?
All’inizio mancavano le armi che cercavamo di prendere dalle caserme per portarle ai partigiani che operavano in montagna. Grazie alle trasmissioni radio, in particolare di Radio CORA che aveva sede a Firenze ed era stata fondata per fornire informazioni sulle attività dei Tedeschi agli Alleati e per richiedere aiuti per i partigiani, gli Americani venivano informati, con delle parole d’ordine, dei luoghi in cui potevano lasciare le armi. Quelle armi dovevano poi essere consegnate oppure lasciate in alcuni posti dove i partigiani che operavano in montagna avrebbero potuto prenderle.
Tra le azioni alle quali ha partecipato ne ricorda una in particolare?
Tre giorni prima della liberazione di Prato, ovvero all’inizio di settembre del 1944, avevamo ricevuto l’ordine di occupare la caserma dei carabinieri. Il giorno dopo ci dissero di andare incontro alla formazione partigiana che stava scendendo dai Faggi di Javello. Un manipolo di Tedeschi era rimasto all’interno del Fabbricone ed iniziò a sparare, in quella sparatoria rimasero uccisi due partigiani, e questo è anche il motivo per cui oggi all’incrocio del Fabbricone c’è una lapide in memoria.
Lei come riuscì a salvarsi durante la sparatoria?
Rimasi indietro con una squadra di cinque ragazzi di cui ero il caposquadra. Via Bologna era tutta bombardata e ci rifugiammo dentro delle buche per strada, causate dai bombardamenti. In direzione di Figline, uno dei cinque ragazzi con cui ero, rimase gravemente ferito e io me lo caricai sulle spalle perché era svenuto. Mi rivolsi quindi ad una camionetta di Americani, obbligando l’autista di portarci entrambi all’ospedale. Questa fu una delle ultime azioni alle quali partecipai pochi giorni prima della liberazione di Prato.
Una volta finita la guerra che cosa ha fatto?
Nel primo dopoguerra gli Alleati misero su un governatorato e mi scelsero come riferimento della città, dopodiché fu formato il primo comune che ebbe come sindaco Dino Saccenti. Negli anni successivi sono stato presidente dell’ANPI di Prato ed oggi sono il vice presidente.
Il libro che la riguarda ha un titolo particolare: può dirci da dove deriva?
Mentre ero a scuola con due amici decidemmo di andare a fare la guerra. Non dicemmo nulla ai nostri genitori ed arrivammo fino alla stazione di Santa Maria Novella. Lì c’era una tradotta militare: i soldati ci chiesero che cosa ci facevano lì dei bambini e noi rispondemmo che volevamo andare in guerra. I soldati ci fecero salire sul treno e all’altezza di Prato ci fecero scendere e ci mandarono a casa.
Una volta arrivato in Piazza San Marco, abitavo lì infatti, il mio babbo mi rimproverò duramente e dopo alcuni giorni mi prese da parte e mi disse che nella vita avrei dovuto ricordarmi questo insegnamento: non essere né un fascista, né un soldato. Da qui abbiamo preso spunto anche per il titolo del libro. (Valentina Cirri)