Leonardo da Vinci, gli esordi a Firenze

Gli anni dal 1478 al 1482

Il 26 aprile di quello stesso anno, il 1478, il capoluogo toscano venne scosso dalla congiura dei Pazzi, il sanguinoso attentato ordito ai danni dei Medici nel quale perse la vita Giuliano, fratello minore di Lorenzo il Magnifico; tutto accadde la mattina della domenica di Pasqua, quando nel tentativo di rovesciare la signoria medicea un gruppo di oppositori politici guidati da Francesco de’ Pazzi aggredì in duomo i due fratelli (ma la congiura fu appoggiata anche da poteri esterni alla città, da papa Sisto IV a Federico da Montefeltro, dalla Repubblica di Siena al Regno di Napoli); al momento dell’elevazione dell’ostia i pugnali degli attentatori calarono su Giuliano e Lorenzo, ma mentre il primo venne colpito a morte con una serie di fendenti infertigli alla schiena, al petto e alla testa che non gli lasciarono possibilità di scampo, il secondo rimase soltanto ferito al collo e riuscì a riparare in sagrestia; la sua reazione e quella del popolo, capitanato dai “palleschi”, cioè dai sostenitori dei Medici, sul cui stemma campeggiavano le famose “palle” appunto, fu spietata. Nel giro di qualche ora Francesco de’ Pazzi, Jacopo Bracciolini e l’arcivescovo Francesco Salviati vennero appesi con un cappio al collo alle finestre del Palazzo della Signoria, e dopo alcuni giorni Jacopo e Renato de’ Pazzi furono impiccati e gettati in Arno, poi nelle settimane successive fu la volta di Giovan Battista da Montesecco, che venne decapitato, e dei due presbiteri Antonio Maffei e Stefano da Bagnone, che furono impiccati, infine il 29 dicembre del 1479 nel Palazzo del Bargello venne giustiziato tramite impiccagione anche Bernardo Bandini Baroncelli, l’esecutore materiale dell’assassinio di Giuliano, rintracciato a Costantinopoli dopo un lungo periodo di clandestinità.

Leonardo assistette all’impiccagione e con fredda lucidità ritrasse il cadavere in uno dei suoi taccuini annotandone in maniera minuziosa i capi di abbigliamento e i loro colori. Forse sperava di aggiudicarsi l’incarico di dipingerne l’effigie, così come aveva fatto l’anno precedente Botticelli, che come severo monito nei confronti della cittadinanza aveva affrescato i ritratti dei congiurati su una parete del Palazzo del Podestà (il Bargello), ma la cosa non ebbe seguito. Tuttavia sembra che il pittore entrasse in contatto con l’ambiente mediceo proprio in questo periodo, iniziando a frequentare Lorenzo e la sua cerchia di intellettuali e recandosi con una certa assiduità nel giardino di San Marco, dove il Magnifico aveva raccolto una vasta collezione di sculture antiche la cui direzione era affidata all’anziano maestro Bertoldo di Giovanni, vecchio allievo di Donatello e futuro insegnante di Michelangelo. Qui Leonardo studiò, copiò e presumibilmente intervenne su alcuni esemplari mutili, approfondendo la conoscenza della statuaria in marmo di cui doveva interessargli soprattutto la componente anatomica, la cui attenta analisi risulta evidentissima nel “San Girolamo nel deserto” oggi custodito alla Pinacoteca Vaticana, eseguito intorno al 1480.

Nel 1481, nell’ambito di una campagna culturale finalizzata al raggiungimento di un clima di distensione politica, Lorenzo de’ Medici inviò a Roma al servizio di Sisto IV alcuni dei più valenti artisti presenti in città, con l’incarico di decorare ad affresco le pareti laterali della Cappella Sistina, dove il pontefice desiderava che venissero rappresentati sedici episodi desunti dalle vite di Mosè e di Cristo (allo stato attuale se ne conservano però solamente dodici): tra i prescelti, quasi tutti usciti dalla bottega di Andrea del Verrocchio, figuravano Sandro Botticelli, Domenico Ghirlandaio, Pietro Perugino, Luca Signorelli, Cosimo Rosselli, Piero di Cosimo, Bartolomeo della Gatta, Biagio d’Antonio Tucci, ma non Leonardo, che rimase clamorosamente escluso dalla rosa dei privilegiati. Probabilmente il Magnifico aveva ben valutato le caratteristiche del giovane pittore, straordinariamente dotato e in possesso di un intelletto altamente speculativo ma altrettanto dispersivo, lento e poco affidabile nella realizzazione delle commissioni che gli venivano assegnate.

Per l’artista fu certamente uno smacco duro da digerire, mitigato soltanto in parte dall’offerta che gli giunse dai frati della chiesa di San Donato a Scopeto, oggi perduta ma che all’epoca sorgeva nei pressi di Porta Romana, in direzione della collina di Bellosguardo, che gli richiesero una pala d’altare raffigurante l’“Adorazione dei Magi”. Per l’occasione il giovane accettò un contratto non particolarmente vantaggioso, procacciatogli con ogni probabilità da ser Piero, che curava gli affari del convento (si impegnò infatti a consegnare la tavola entro trenta mesi in cambio di un modesto compenso, qualche soma di legna ed un barile di vino), ed iniziò a lavorare di buona lena alla preparazione del dipinto, rivoluzionandone completamente il soggetto. Il tema dell’“Adorazione” infatti, uno dei più frequentati nell’arte fiorentina a partire almeno dal XIV secolo, offriva ai pittori la possibilità di dare libero sfogo alla fantasia e di dimostrare le loro doti di decoratori inserendo nella composizione episodi, personaggi, animali e dettagli dal gusto esotico, fastoso, lussuoso, in un tripudio di particolari fortemente variopinti, come testimoniano i precedenti di Gentile da Fabriano, Benozzo Gozzoli ed altri ancora.

Leonardo abbandonò questa concezione del soggetto e lo rinnovò radicalmente offrendone un’interpretazione carica di significato, eliminando gli orpelli ornamentali e concentrando il senso del dipinto nella manifestazione della divinità del Bambino (dal greco “Epifania”, nel senso letterale del termine), che insieme a Maria che lo tiene in grembo offrendolo all’omaggio dei Re Magi è il fulcro prospettico, compositivo e semantico dell’opera. Nonostante la riflessione profonda svolta sul tema, lo studio accurato condotto sulla composizione e la cura estrema messa nell’esecuzione della tavola, a un certo punto l’artista, che si ritrasse fra gli astanti all’interno del quadro, sembrò incapace di procedere nel lavoro, si bloccò, tergiversò, e in ultimo non riuscì a concludere l’opera, che lasciò incompiuta ed affidò in custodia alla famiglia dei Benci. Ancora una volta fu Filippino Lippi a sostituirlo nella realizzazione della commissione, con una pala che consegnò molti anni più tardi. Quando Lorenzo de’ Medici propose a Leonardo di recarsi da Ludovico Sforza per portargli in dono un omaggio da parte della signoria fiorentina (il Vasari riferendosi a questo episodio parla di una lira d’argento a foggia di teschio di cavallo confezionata dallo stesso Leonardo), il giovane colse al volo l’occasione per abbandonare l’ambiente fiorentino e lasciarsi alle spalle una lunga serie di dicerie, delusioni ed insuccessi che avevano mortificato la prima parte della sua esistenza. Il trasferimento nella città del Moro rappresentò per lui l’occasione del riscatto, e i lunghi anni passati in Lombardia costituirono senza dubbio il periodo più felice e fecondo della sua vita. (segue – Barbara Prosperi)

 

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