Leonardo da Vinci alla corte di Ludovico il Moro

I dipinti su tavola e le feste a Milano

Nel 1482 Leonardo partì alla volta di Milano. Era un giovane di trent’anni, un’età in cui all’epoca si riteneva che un uomo dovesse aver trovato la sua realizzazione nella società, e benché avesse conseguito la qualifica di artista già da un decennio in quell’arco temporale aveva concluso poco o nulla: se si escludono le imprese a cui aveva collaborato quando ancora si trovava nella bottega del Verrocchio, a livello personale aveva ricevuto due commissioni private ma non aveva portato a termine nessuna delle due; aveva inoltre subito lo smacco di vedersi escludere dai più importanti incarichi del tempo e aveva dovuto affrontare la vergogna di una denuncia per sodomia. Deluso ed umiliato dalle esperienze collezionate fino a quel momento, segnato da una situazione familiare che probabilmente gli pesava fin dall’infanzia, colse al volo la possibilità di trasferirsi in un ambiente nuovo dove nessuno lo conosceva e dove poteva ricostruirsi una vita partendo da zero.

Prima di presentarsi fisicamente a Ludovico Sforza, duca della città, soprannominato il Moro per il colore olivastro della carnagione, gli inviò una lettera suddivisa in dieci paragrafi in cui gli elencò la vasta gamma delle sue competenze, specificando nei primi nove le sue capacità di inventore ed ingegnere civile e militare, e proponendosi come artista soltanto alla fine, in qualità sia di architetto che di scultore e pittore: “In tempo di pace credo satisfare benissimo a paragone de omni altro in architectura, in composizione di edificii pubblici et privati. Item, conducerò in scultura di marmore, di bronzo et di terra, similiter in pictura, ciò che si possa fare ad paragone de omni altro, e sia chi vole. Item si poterà dare opera al cavallo di bronzo, che sarà gloria immortale et aeterno onore de la felice memoria del Signore vostro patre et de la inclita casa sforzesca”.

Arrivò nel capoluogo lombardo in compagnia del giovane musico Atalante Migliorotti e del meccanico Tommaso Masini, conosciuto anche come Zoroastro da Peretola, e ben presto si mise in luce per le doti che rendevano la sua frequentazione gradevole e lo aiutarono ad animare in maniera piacevole la corte del Moro: Leonardo era bello, poteva contare su un fisico prestante, aveva fascino, era elegante, vestiva in maniera ricercata, sapeva intrattenere conversazioni brillanti e divertire il pubblico con motti, facezie e indovinelli di sua creazione, suonava e cantava in maniera eccellente, così finì per accattivarsi le simpatie di quanti lo circondavano e per imporsi come uno dei protagonisti della vita mondana milanese. Più che come inventore o artista in senso stretto lo Sforza almeno in un primo momento lo impiegò soprattutto come regista, scenografo e costumista, incaricandolo di allestire per lui feste e spettacoli che rimasero impressi a lungo nel ricordo dell’alta società meneghina, che andava dicendo meraviglie del talentuoso pittore toscano.

I primi mesi gli richiesero tuttavia un periodo di adattamento nel quale oltre che per farsi conoscere Leonardo ebbe bisogno di tempo per prendere confidenza con un idioma che non gli era familiare, perché nell’Italia di quegli anni non esisteva ancora una lingua nazionale ma si parlavano i dialetti. All’inizio il giovane dimorò presso l’abitazione dei fratelli Evangelista e Giovanni Ambrogio de Predis, vicino a Porta Ticinese, e fu probabilmente grazie ai due pittori che ottenne la sua prima commissione. Questa gli arrivò nella primavera del 1483 da Bartolomeo Scorione, priore della Confraternita dell’Immacolata Concezione, che gli richiese una pala d’altare tripartita per la cappella della confraternita nella perduta chiesa di San Francesco Grande. In base al contratto, che venne stipulato il 25 aprile, lo scomparto centrale del polittico doveva rappresentare la Madonna col Bambino sovrastati da Dio Padre con due profeti ed angeli, mentre quelli laterali quattro angeli cantori e musicanti, il tutto decorato con dovizia di particolari ed abbondanti dorature, secondo un gusto ancora fortemente debitore del Gotico internazionale. Alla firma del contratto erano presenti anche i fratelli de Predis, che collaborarono alla realizzazione dell’opera eseguendo le due tavole esterne del trittico, che doveva essere consegnato entro l’8 dicembre di quello stesso anno.

Leonardo però non si attenne a quanto concordato – non sappiamo se la sua fosse una scelta deliberata o se il primitivo contenuto del contratto venisse modificato in un secondo momento – e dipinse la Madonna col Bambino, San Giovannino e un unico angelo immersi in un aspro paesaggio roccioso che non lasciava spazio ad elementi decorativi. Nasceva così la “Vergine delle rocce”, che descrive il leggendario incontro avvenuto nel deserto tra il Cristo bambino e il piccolo San Giovanni Battista, e che per la cavità ombrosa che accoglie la figura di Maria è stata interpretata come un’allusione al dogma dell’Immacolata Concezione. Sebbene non se ne conosca con esattezza il motivo scatenante – forse i cambiamenti apportati in corso d’opera o forse problemi di tipo economico riguardanti i pagamenti –, tra gli artisti e la confraternita si sviluppò una controversia che si protrasse per molti anni e che giunse ad una conclusione soltanto nel 1506, quando Leonardo aveva ormai fatto ritorno a Firenze. Nel frattempo il pittore realizzò una nuova versione del dipinto (attualmente la prima si trova al Museo del Louvre di Parigi e la seconda alla National Gallery di Londra), che terminò presumibilmente durante il secondo soggiorno milanese e che fu destinata a sostituire quella originaria (acquistata probabilmente da Ludovico il Moro).

Leonardo intanto approfondì i suoi interessi nel campo delle lettere, della scienza e della tecnica (tra gli altri in questo periodo entrò in rapporto col matematico Luca Pacioli), progettò invenzioni civili e militari, proseguì gli studi anatomici ed eseguì alcuni bellissimi quadri, tra i quali si ricordano la “Dama con l’ermellino”, la “Belle Ferronière”, la “Madonna Litta” e il “Salvator Mundi”, avvalendosi in alcuni casi dell’apporto degli allievi, tra i quali spiccano prevalentemente gli interventi di Giovanni Antonio Boltraffio e Marco d’Oggiono, che collaboravano con il maestro alla stesura delle opere o ne realizzavano delle repliche. I suoi ritratti si segnalano in particolar modo per il taglio di tre quarti, che annulla la rigidità spesso connessa alle pose frontali o di profilo, e per l’attenzione all’aspetto psicologico dell’effigiato, indagato nei cosiddetti “moti dell’animo”, ovvero i sentimenti, le qualità morali e gli aspetti del carattere che emergono dall’interno dell’individuo, nell’atteggiamento esteriore, nell’aspetto somatico e nella postura. Benché non sia possibile determinare con certezza l’identità dei soggetti immortalati dal genio di Vinci, per quanto riguarda la “Dama con l’ermellino” è molto probabile che rappresenti Cecilia Gallerani, l’amante di Ludovico Sforza, a cui sembrano alludere la presenza dell’animale, che in greco antico veniva denominato “galè”, e il titolo di cavaliere dell’Ordine dell’ermellino conferito al Moro dal re di Napoli Ferrante d’Aragona. Per le nozze di Gian Galeazzo Maria Sforza, nipote di Ludovico, con Isabella d’Aragona, tra il 1489 e il 1490 Leonardo si occupò delle decorazioni degli ambienti del castello sforzesco e curò nei minimi dettagli tutti gli aspetti della Festa del Paradiso, una strabiliante messa in scena costituita da canti, balli, musiche, suoni e giochi di luce su cui si stagliava la maestosa rappresentazione della volta celeste, attorniata dai sette pianeti del sistema solare e dalle dodici costellazioni dello zodiaco in movimento.

Proprio in quegli anni l’artista accolse sotto il suo tetto un bambino di dieci anni, Gian Giacomo Caprotti, a cui venne presto affibbiato il soprannome di Salaì, in riferimento ad un diavolo presente nel “Morgante” di Luigi Pulci, ad indicare il comportamento burrascoso del fanciullo. Di lui infatti Leonardo scrive: “Jacomo venne a stare con meco il dì della Maddalena – il 22 luglio – del 1490 d’età d’anni 10”; “Il secondo dì li feci tagliare 2 camicie un paro di calze e un giubbone – continua –, e quando mi posi i denari al lato per pagare dette cose, lui mi prese detti denari dalla scarsella e mai fu possibile farli confessare, bench’io n’avessi vera certezza”; poi elenca seccamente le caratteristiche del ragazzo: “Ladro bugiardo ostinato ghiotto”. Giacomo restò al fianco di Leonardo per oltre due decenni, divise con lui gli anni migliori della sua vita e fu in definitiva una delle persone più vicine al maestro, che lo iniziò alla pratica della pittura senza però riuscire a trasformarlo in un artista di rilievo; eppure, a dispetto della sua mediocrità e delle sue intemperanze, Leonardo lo tenne con sé fino alla parte conclusiva della sua esistenza, ragion per cui non rimane che ipotizzare una ragione di tipo affettivo. Forse l’artista lo considerava il figlio che non aveva mai avuto, oppure ne fece il suo amante, ad ogni modo quel che è certo è che nei suoi confronti non cessò di essere indulgente e di ricoprirlo di attenzioni, arrivando a perdonare tutte le sue malefatte.

Nel 1493 entrò a far parte del nucleo familiare di Leonardo anche un’altra persona, di cui l’uomo registra per ben due volte nelle sue carte la data dell’arrivo: “A dì 16 di luglio Caterina venne a dì 16 di luglio 1493”; la menziona ancora nel 1494 in relazione all’acquisto di alcuni indumenti, dopodiché la nomina per l’ultima volta un anno più tardi quando annota minuziosamente le “spese per la socterratura di Caterina”. Per quanto le esequie non fossero sfarzose, la cifra di 180 soldi che il pittore sborsò per il funerale e la sepoltura sembra eccessiva per una semplice domestica, inoltre la reiterazione della data della venuta della donna nell’abitazione dell’artista trova un’unica rispondenza negli scritti di Leonardo, e cioè nella registrazione dell’ora della morte del padre, ser Piero, che avvenne dopo il ritorno del pittore nel capoluogo toscano: “A dì 9 di luglio 1504, mercoledì a ore 7, morì Ser Piero da Vinci, notaio al Palazzo del Podestà, mio padre, a ore 7”; entrambi gli elementi hanno portato gli studiosi a immaginare che la Caterina di cui scrive l’artista fosse la madre, trasferitasi da Vinci a Milano per ricongiungersi al suo primogenito. L’ipotesi non è priva di fondamento, perché all’epoca la donna era rimasta da sola (le figlie avevano abbandonato la casa dei genitori in seguito ai rispettivi matrimoni, il marito era morto nel 1490, e l’unico figlio maschio, Francesco, aveva perso la vita per un colpo di balestra) e forse aveva avvertito il bisogno di affidarsi ad una figura maschile e al contempo di riallacciare un rapporto interrotto tanti anni prima; ma come al solito Leonardo è impenetrabile nelle emozioni, nei sentimenti e nei pensieri più profondi, che custodisce gelosamente dentro di sé senza lasciar trapelare niente dai suoi scritti, e infatti nei taccuini è attento a non tradirsi e a non far capire quale sia la relazione che lo lega alla donna, di cui annota lucidamente soltanto una fredda lista di spese. (continua – Barbara Prosperi)

 

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