di Walter Fortini

La fama del Carmignano si accompagna indubbiamente all’antica storia di questo comune. Nel suo aroma, nel suo gusto e nel suo profumo si nascondono tappe importanti dei primi insediamenti che ne caratterizzarono il territorio. Il ritrovamento di vasi di vino all’interno di alcune tombe etrusche e l’assegnazione da parte di Cesare ai suoi veterani, tra il 50 e il 60 a.C., di talune terre tra l’Arno e l’Ombrone, coltivate fin da allora a vite, ci riporta un bel po’ indietro nel tempo. Uno dei primi documenti sulla produzione vinicola ed olearia di queste colline giunge però solo qualche secolo più tardi, sotto il dominio dei Franchi, nell’804 d.C.. Regnavano allora Carlo Magno e suo figlio Pipino e nella pergamena, scritta in latino, che era un contratto con cui la chiesa di San Pietro a Seano concedeva in uso alcuni terreni sulle colline di Capezzana, si parla di “vineis, silvis e olivetis”: vigne, boschi ed olivi appunto, dati in affitto con una formula di divisione del raccolto che può essere considerata una sorta di mezzadria ante litteram.

Sulla qualità del vino di quell’epoca non possiamo esprimerci, ma basta arrivare nel ‘300 per avere un giudizio sul Charmignano. In quegli anni Francesco Datini, tramite il notaio ed amico carmignanese Ser Lapo Mazzei, ne ordinava per la sua famosa cantina di Prato quindici some. Il celebre mercante non difettava certo nel “fiuto degli affari”; eppure per ogni soma giunse a pagare“un fiorino suggello”, quando il prezzo corrente dei vini più prestigiosi dell’epoca era appena un quarto di tale cifra. Evidentemente aveva le sue buone ragioni. Ancora nel ‘300 il cronista Domenico Bartoloni parlava “dei vini di Carmignano e d’Artimino che sono eccellenti”. Tre secoli più tardi, nel suo famoso ditirambo Bacco in Toscana, era invece un altro Francesco (il Redi) a lodare il prodotto dei vitigni del Montalbano.

“… Se giara io prendo in mano di brillante Carmignano – declamava il poeta – così grato in sen mi piove che d’ambrosia e nettar non invidio a Giove.”

Il ditirambo era un’antica forma di poesia corale usata per celebrare i riti orgiastici di Dionisio, dio greco dell’ebbrezza.Francesco Redi – medico e poeta protetto e favorito dei Medici, che canterà anche gli aneddoti e gli altri personaggi di quella corte – immagina Bacco (nome latino di Dionisio) intento a bere un po’ tutti i vini allora conosciuti. Saranno buoni, dice, i vini francesi come il Claretto di Avignone o anche il Chianti, su cui non c’è niente da eccepire: ma il vino di Artimino e di Carmignano, lascia intendere il poeta, sono tutt’altra cosa. Ed il giudizio è di quelli autorevoli: niente meno che di un dio.

Questo grande vino da arrosto e da cacciagione, a lungo invecchiamento, si era fatto davvero un buon nome, tanto che nel 1716 il granduca Cosimo III de’ Medici emise prima un decreto e poi un bando con cui stabiliva precise e severe norme per la vendemmia e delimitava la zona di produzione. Fu questo il primo esempio nel mondo per la denominazione di origine controllata (anticipò di circa un secolo la AOC francese) e costituì al contempo la prima patente di nobiltà del Carmignano: infatti soli altri tre vini toscani in quegli anni (il Chianti, Pomino e Valdarno Superiore) si potevano fregiare di un tale riconoscimento.

Bando Cosimo III de Medici

Decreto – Clicca sull’immagine per leggere il testo

Da quel momento gli elogi sul Carmignano non sono certo mancati. Il Lami nella sue Lezioni di Antichità toscane cita Artimino per gli “ottimi vini, ulivi e cacciagione”, oltre che per l’aria salubre e la comoda vicinanza del fiume Arno. Per citare appena qualche giudizio espresso nel corso dell’Ottocento il Repetti, nel 1833, affermava che il vino di Carmignano era uno dei migliori e più rinomati della Toscana, mentre all’Amati nel suo Dizionario geografico dell’Italia del 1870 ba-stava la sola parola “squisito”per definirlo. Quanto al secolo nostro, vanno sicuramente ricordate le parole di plauso che anche il grande poeta e romanziere Gabriele D’Annunzio ha avuto.

Magari conobbe il vino di queste colline durante il suo soggiorno liceale a Prato (o lo apprezzò più tardi, quando si recava in visita alle sorelle Gramatica, da lui reputate le migliori interpreti de La figlia di Jorio e per questo vezzeggiate). Sta di fatto che ne “Le faville del maglio” il nome Carmignano ricorre più di una volta e l’autore, attraverso i suoi ricordi giovanili, ci informa anche sulle qualità organolettiche del vino.

Egli scriveva: ” Mio padre ha spillato la botte che odora di Mammola, e quest’anno è contento del Carmignano che egli primo ha maturato nei suoi vigneti de’ Colli per intoscanire la sua terra innanzi di intoscanire il suo primo genito.”

Purtroppo però, come spesso accade, la storia è fatta anche di passi falsi. Nel 1932 furono legittimati sette diversi marchi di Chianti (tra cui, anche il Chianti Montalbano) e l’intero comprensorio del Carmignano fu così inglobato nella denominazione Chianti DOC, dimenticando ingiustamente tutta la tradizione viticola di queste colline.

Ma non si tratta solo di storia. La presenza di alcuni vitigni, che nel resto della Toscana non sono molto frequenti o addirittura sconosciuti, rendono questo vino ben diverso dal Chianti per precise qualità organo-lettiche. Occorre ricordare che il Carmignano, nel suo uvaggio, è da sempre caratterizzato da una pregevole quantità di Cabernet, che a dispetto di quanto accade in altri vini toscani (ma anche francesi) non provoca alcun sgradevole retrogusto erbaceo.

L’uso del Cabernet (oggi di moda) è attestato fin da tempi non “sospetti”, quando la particolare qualità di uva era davvero rara in questa zona. A quanto si narra pare che i primi vitigni siano stati trapiantati su queste colline per desiderio di Caterina de’ Medici, quando nel sedicesimo secolo fu regina di Francia: lo confermerebbe lo stesso nome di “uva francesca”, ancora in voga tra i vecchi viticoltori e chiara storpiatura dal francese di un aggettivo che forse ne indicava la provenienza.

Anche l’ambiente climatico ha comunque la sua parte nel far sì che il Carmignano si distingua dagli altri vini del Chianti, nonostante che le formazioni pedologiche non si discostino molto dal paesaggio tipico toscano. Per la piovosità in genere limitata agli ultimi due mesi prima della raccolta (cioè settembre ed ottobre) si può benissimo parlare di microclima a sé stante, con effetti non molto dissimili dalla regione francese del Bordeaux, dove l’acqua (per via del terreno sassoso) scola via velocemente. Ma anche la sola maggiore luminosità di queste colline, rispetto ad altre zone della Toscana, favorisce il processo di personalizzazione di un vino.

Così attorno al 1960 qualche azienda decise che era meglio tornare alle origini (e al vecchio nome). Qualche anno dopo,nel 1971, fu costituita una Congregazione di produttori che si richiamava direttamente al bando mediceo del 1716 e nell’obbligo di sottoporre il vino all’assaggio di una speciale commissione, prima della sua immissione sul mercato, si anticipò addirittura una normativa propria della DOCG.

Fu sempre questo consorzio viticolo, che nel 1999 si è ristrutturato in consorzio di tutela ed ha così ottenuto dal Ministero il riconoscimento ad organo di autocontrollo, a rivendicare l’autonomia del Carmignano, inoltrando agli enti competenti la richiesta per ottenere la denomi-nazione di origine controllata. Nell’aprile del 1975 al vino color rubino di Carmignano, tendente con gli anni ad acquistare una colorazione ambrata dai riflessi tra l’arancio e il cotto, venne pertanto concessa la DOC, con la facoltà di includervi le annate in invecchiamento fino al 1969. Nel 1990, poi, a riconoscere la sua spicca-ta personalità e ad inglobare il rosso Carmignano nella mappa dei nove vini italiani in quel momento di maggior prestigio (nel “96 già dodici ed oggi ancor più: forse troppi), è arrivata pure la Garantita, applicabile per i vini in invecchiamento fino al 1988.

Al Carmignano non faceva certo difetto essere il più piccolo consorzio per estensione (e tale è tuttoggi) ad essere stato incluso in questa ristretta cerchia. Ciò, al contrario, gli ha consentito di godere di un’invidiabile omogeneità, che si traduce poi nell’assenza di terreni scadenti, e di essere destinato ai palati meno distratti e più qualificati.

La zona di produzione della DOCG è rimasta la stessa dei tempi di Cosimo III de’ Medici: cento ettari registrati divenuti 135 negli ultimi quattro anni (e che potrebbero ulteriormente crescere fino a sfiorare i duecento) condivisi in parte con il comune di Poggio a Caiano e distribuiti su una fascia collinare compresa tra i 250 e i 400 metri, in parte rivolta verso la pianura e in parte verso la valle dell’Arno. Precise ed inderogabili disposizioni tendono ancor oggi, nonostante la domanda in forte crescita, a limitarne la produzione a vantaggio della qualità. Ma l’etichetta del Carmignano è ormai famosa anche all’estero, perfino oltreoceano. Del resto i vini di queste colline presero la via della Manica già nel Rinascimento, ad opera dei Medici.

Il granduca Cosimo III, estensore del famoso bando del 1716, era solito regalarne qualche bottiglia alla regina Anna d’Inghilterra. Ad Artimino, che aveva migliorato “in più luoghi colle colmate e cogli altri bonificamenti”, produceva “i vini più delicati e più scelti che mandava ogni anno a regalare copiosamente nelle principali corti d’Europa”. A raccontarcelo è un frate anonimo, in un elogio del granduca. E a Londra, verso la fine del Settecento, i vini di Carmignano furono importati e commercializzati addirittura per conto del poggese Filippo Mazzei. In seguito l’illustre concittadino si trasferì negli Stati Uniti per lottare al fianco degli americani nella conquista della loro indipendenza (ma non senza aver trapiantato sul suolo della Nuova Virginia qualche vitigno toscano ed avervi portato i fichi secchi per cui Carmignano all’epoca era famosa). In Virginia Mazzei divenne esperto e consigliere agricolo di Jefferson nella tenuta di Monticello. Ed il presidente americano tanto familiarizzò con i vini di Carmignano e di Artimino da tenerne alcune bottiglie nella sua cantina personale.

Nel 1880 le Cantine Ippolito Niccolini esportavano invece in Svizzera, in Austria-Ungheria ed in Germania. E tale fu il successo delle prime commesse che, agli albori del nostro se-colo, l’esportazione all’estero assorbiva i due terzi dell’intera produzione dell’azienda: soprattutto dopo la conquista dei mercati inglesi ed americani, dove sempre nell’Ottocento era già arrivato il marchese Antonio Ricci con il vino della sua fattoria in Castello, avuta in eredità. Pressoché ogni giorno, lunghe teorie di carri agricoli e di barrocci carichi di fusti e di casse scendevano dalle cantine Niccolini fino allo scalo ferroviario del Comune.

Secondo quanto ci racconta Filippo Mazzei, i vini del carmignanese, purtroppo, ai suoi tempi non erano adatti ad essere invecchiati (oggi si affinano invece indefinitamente al trascorrere degli anni) e mal sopportavano lunghi viaggi in mare, al contrario dei vini di Borgogna e di Spagna che non subivano alcun danno durante il trasporto ed erano anzi ottimi per l’invecchiamento. Lo stesso rileva il Villifranchi quando parla del Carmignano custodito nelle “freschissime e profonde cantine” di Filippo Cremoncini.

Esso, sorbito al momento giusto, era sicuramente “il vino più grato, delicato, e sano che si possa bere”, ed a differenza del Chianti veniva preparato con uva granella e non con mosto, facendo appassire e stagionare al sole le uve. Pare però che si conservasse “ottimo per due o tre anni, solo a condizione di non fargli cambiare paese e subire lunghi viaggi”.

Ma tale difetto fu presto superato: altrimenti non si capirebbe il successo che il Carmignano ha riscosso all’estero. Difatti appena si iniziò a vinificare senza la pratica del “governo”, o quantomeno riducendola drasticamente, “i risultati furono eccellenti”. Parola, ancora, di Filippo Mazzei che, non senza fatica (e pagando quel vino assai di più del prezzo a cui lo si poteva di solito comprare e vendere), riuscì a convincere un certo Cartei, contadino in Carmignano, ad operare in questo modo.

Comunque non tutti i vini pare subissero così prepotentemente il … mal di mare. Il “vino di sortimento (o comune)” di Artimino, che il Villifranchi nel 1700 distingueva dal Carmignano, era famoso per la bontà delle uve che lo componevano, molte delle quali straniere e soprattutto spagnole, e veniva esportato in Germania e in Inghilterra proprio perché capace di resistere perfettamente ai viaggi e “potersi conservare con vantaggio” fino a 8-10 anni.

Ciò dimostra che la tradizione, come sostiene oggi qualche autorevole produttore, non è qualcosa di immutabile: non lo è mai stata. Il vino è lo specchio dell’anima della gente che abita attorno a quei campi da cui nasce. L’importante è non esagerare. E così ben vengano esperimenti quali l’uso delle più piccole barriques francesi per una parte del ciclo di fermentazione di alcuni vitigni minori del Carmignano, al fine di accentuarne i profumi, o il recupero di vecchi usi dei contadini. C’è anche chi, oggi, evita del tutto il trebbiano ed altri vitigni a bacca bianca (consentiti dal disciplinare fino ad un massimo del 10 per cento): un altro ritorno alle origini. Basta che il risultato non sia troppo diverso dal Carmignano che conosciamo. Ma a questo ogni produttore è ben attento.

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