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La "Visitazione" del Pontormo: significato, committenza, cronologia, origine ed interpretazioni
La “Visitazione” custodita nella chiesa di San Michele, oltre ad essere l’immagine che probabilmente meglio rappresenta Carmignano, è sicuramente una delle opere maggiormente significative del Manierismo fiorentino e indubbiamente uno dei dipinti più celebri di Jacopo Carucci da Pontorme, meglio conosciuto come il Pontormo, presumibilmente il suo capolavoro insieme alla “Deposizione” conservata nella basilica fiorentina di Santa Felicita. L’episodio raffigurato nella pala, collocata sul secondo altare di destra dell’antica chiesa francescana, è desunto da un passo del Vangelo secondo Luca (Lc 1, 39-45) e rappresenta la visita di Maria ad Elisabetta, entrambe in attesa del loro figlio unigenito, rispettivamente Gesù Cristo per la prima e Giovanni Battista per la seconda. Mentre si abbracciano con affetto le due donne, consapevoli delle loro maternità miracolose, si scambiano uno sguardo intenso e commosso che sembra esprimere i loro mutui sentimenti, palesati attraverso un tacito dialogo che non ha bisogno di proferire parola.
Maria ed Elisabetta dominano la scena con le loro figure allungate, dalle dimensioni maestose e dalle forme tondeggianti, con le vesti dai colori cangianti e rigonfie che ne evidenziano lo stato interessante. Dietro di esse compaiono altre due donne che sembrano i loro doppi mostrati di fronte anziché di profilo, con gli abiti dai colori invertiti; per alcuni studiosi sono semplicemente delle ancelle, per altri rappresentano le due protagoniste ritratte in maniera speculare, in un gioco puramente intellettuale caro ai manieristi, mentre per altri ancora il loro ruolo non è chiaro e attende tuttora di essere decifrato; il fatto che entrambe rivolgano il loro sguardo all’esterno del quadro, in direzione di chi lo osserva, è con ogni probabilità un espediente per coinvolgere il riguardante nel mistero cui allude il soggetto della tavola. Due uomini siedono su una panca di pietra che si sviluppa lungo la facciata dell’edificio sulla sinistra del dipinto, e rappresentano forse Giuseppe e Zaccaria, sposi di Maria ed Elisabetta, anche se anche in questo caso esistono interpretazioni diverse che li considerano dei semplici astanti. L’edificio sulla destra pare ricordare il carcere delle Stinche, immerso in un paesaggio urbano dal sapore fortemente metafisico.
Per quanto riguarda la composizione dell’opera, alcuni storici dell’arte hanno ravvisato un precedente nell’incisione delle “Quattro donne” o “Quattro streghe” di Albrecht Dürer, artista tedesco particolarmente amato dal Carucci, che al ciclo delle xilografie della “Piccola Passione” si era ispirato per gli affreschi eseguiti tra il 1523 e il 1525 per la Certosa del Galluzzo; altri invece hanno fatto riferimento ad un rilievo marmoreo di epoca romana, attualmente conservato al British Museum di Londra, che raffigura due sposi che si stringono la mano alla presenza di due testimoni; oltre a questi due modelli non si può non tenere in considerazione gli innumerevoli esemplari della “Visitazione” che allora erano presenti nella città di Firenze, tra i quali spicca per la maggiore vicinanza di sentimenti, di forme e di colori quella realizzata da Mariotto Albertinelli, uno dei primi maestri del Pontormo, oggi esposta alla Galleria degli Uffizi, dove viene ammirata per il suo cromatismo prezioso e iridescente che rammenta da vicino il “Tondo Doni” di Michelangelo, un quadro che rappresenta un caposaldo imprescindibile per tutti i manieristi della prima generazione.
Dal punto di vista tecnico si tratta di una tavola dipinta ad olio, ottenuta dall’assemblaggio di cinque assi di pioppo disposte in verticale, cosparse di caseina e rafforzate sul lato posteriore da due traverse orizzontali di larice o abete, per 207 centimetri di altezza e 159 di larghezza. Il recente restauro, di cui si parlerà in maniera più approfondita in seguito, ha evidenziato l’ottimo stato di salute del supporto ligneo, e individuato i pigmenti utilizzati dal Carucci – biacca, nero di carbone, terre brune, ocra gialla, giallo di stagno, verde malachite, azzurrite, lacca di robbia, cinabro –, molti dei quali già impiegati per la già citata “Deposizione” della Cappella Capponi, elemento importantissimo quest’ultimo per determinare la datazione del dipinto, a proposito del quale un numero considerevole di studiosi già propendeva in virtù di evidenti assonanze stilistiche per un’assegnazione immediatamente a ridosso del ciclo pittorico di Santa Felicita (costituito oltre che dalla pala d’altare della “Deposizione” dall’affresco dell’“Annunciazione” e dai quattro tondi con gli Evangelisti), eseguito secondo quanto attestano i documenti fra il 1525 e il 1528. La datazione relativa agli anni 1528-1529 è dunque una scoperta che ha il valore di una conferma, e si deve al restauratore Daniele Rossi, che nel giro di quattro anni si è occupato della pulitura e del consolidamento di entrambe le tavole, mettendo a confronto stile, tecnica e materiali in un lavoro di altissima levatura.
Non disponendo del contratto e di fonti coeve sul dipinto, non conosciamo le circostanze precise che stanno alla base della committenza, anche se solitamente un soggetto come quello della “Visitazione” era spesso legato ad eventi come matrimoni o nascite, tuttavia non sappiamo esattamente per quale lieto avvenimento il quadro venisse eseguito, e se l’episodio rappresentato nella pala fosse realmente riconducibile ad un avvenimento privato che faceva riferimento alla sfera familiare o alludesse ad altro; le uniche tracce che abbiamo sono due scritti che mettono l’opera in relazione con la famiglia dei Pinadori, probabili committenti del dipinto, legati sia al Pontormo che a Carmignano (vedi “Un’opera del Pontormo a Montalbiolo?” di Barbara Prosperi). I Bonaccorsi Pinadori, poi indicati semplicemente come Pinadori, dalla pigna dorata che campeggiava sul loro stemma, erano commercianti di pigmenti e pennelli, e pare che tra i loro clienti avessero anche il Carucci, come tra le altre cose sembra indicare la fornitura dei colori adoperati per la decorazione della Cappella Capponi; sebbene fossero fiorentini, avevano diverse proprietà nel territorio di Carmignano, sia terreni che edifici, il più famoso dei quali è quello situato ancora oggi nella parte più alta del paese, nella località denominata Castello, in cui visse anche il marchese Antonio Ricci.
In un documento datato 25 giugno 1538, rinvenuto di recente da Maria Grazia Antonelli, sono riportate le disposizioni testamentarie di Bartolomea del Pugliese, vedova di Paolo Pinadori, che assegnava alla chiesa di San Francesco a Carmignano (l’attuale propositura di San Michele) un lascito per celebrare delle messe “presso l’altare della Visitazione della Beata Vergine Maria intitolato ai Pinadori”; questo documento indica che la famiglia Pinadori aveva il patronato di un altare dedicato alla Visitazione nella chiesa francescana del paese, che è quasi certamente quello su cui si trova la tavola del Pontormo, ai cui lati campeggiavano un tempo gli stemmi della casata, ma non abbiamo la sicurezza che all’epoca vi fosse già collocata la pala, o che – se ve ne fosse una – essa corrispondesse proprio a quella del Carucci, che potrebbe esservi arrivata successivamente; questo perché la prima volta che la troviamo menzionata in uno scritto è nel 1677 per mano di Giovanni Cinelli, che nel suo commento a “Le bellezze della città di Firenze” di Francesco Bocchi (1591), riferendosi al disegno preparatorio per il dipinto, afferma di aver visto in casa del senatore Andrea Pitti “un modello d’una Visitazione in piccolo del Pontormo, i cui panneggiamenti son bellissimi e toccati con franchezza e stimo che l’originale in grande sia in una villa de’ Pinadori a Carmignano”. Tornando sulla questione relativa all’assegnazione cronologica dell’opera, sulla base del primo documento alcuni storici hanno ipotizzato una datazione compresa tra il 1537 e il 1538, ma sembra ragionevole pensare che il 1538 costituisca semplicemente un termine ante quem, mentre ancora una volta pare più convincente una data posteriore al 1526, anno in cui morì Paolo Pinadori ed è plausibile che la vedova avesse o inaugurato o rinnovato l’altare patrocinato nel villaggio di Carmignano.
Benché il verbo “stimare”, adoperato dal Cinelli, sia indice di una supposizione più che di una certezza, la frase riferita all’abitazione di Castello ha indubbiamente offerto sostegno a quanti ritengono che la tavola non abbia trovato subito la sua collocazione in chiesa, ma che sia forse nata per un’altra destinazione e sia giunta nell’edificio religioso in un secondo momento, dopo essere probabilmente passata per la residenza carmignanese dei Pinadori. A questo proposito esistono varie scuole di pensiero, che hanno originato diverse ipotesi, tra le quali se ne sono delineate tre principali e di particolare interesse. La prima, proposta da Philippe Costamagna, sostiene che il quadro dipinto dal Carucci alludesse a delle idee religiose non propriamente ortodosse, inclini alla Riforma protestante messa in atto da Lutero, che a Firenze aveva avuto un importante precedente nelle istanze propugnate da Savonarola, il quale auspicava una Chiesa epurata dalla corruzione dilagante in quegli anni; in questo senso per Costamagna va dunque inteso l’abbraccio tra Maria ed Elisabetta, simbolo di passaggio tra la Chiesa nuova e la Chiesa vecchia; questo messaggio, avvertito come rischioso in un momento in cui la Chiesa di Roma stava cercando di correre ai ripari per soffocare le nuove idee passibili di condanna per eresia, poterono forse suggerire alla famiglia Pinadori di occultare la pala nella cappella della villa anziché nella chiesa, a cui è presumibile che venisse destinata in seguito.
La seconda è che il nome dei Pinadori e tutto quello che ad essi era legato fosse poco gradito alla dinastia medicea e andasse perciò attentamente occultato. In effetti l’inimicizia tra le due casate è comprovata dagli storici, tra i quali il già citato Antonio Ricci, che hanno narrato come nel 1540 Cosimo I avesse fatto uccidere per motivi politici Alessandro Bonaccorsi Pinadori, e che per vendicare lo zio il nipote Giuliano avesse ordito una congiura contro il granduca, il quale essendone venuto a conoscenza fece poi giustiziare anche il giovane. Questo ragionamento trova in effetti una significativa conferma nel fatto che Giorgio Vasari nella biografia dedicata al Pontormo ignora completamente la “Visitazione” di Carmignano, di cui sembra incredibile che non conoscesse l’esistenza. Non bisogna però dimenticare che “Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti” (1568) portano non a caso una eloquente dedica “allo illustrissimo ed eccellentissimo signore il signor Cosimo de’ Medici duca di Fiorenza signore mio osservandissimo”, e che pertanto citarne gli avversari poteva significare per l’artista aretino incorrere nelle ire del suo mecenate, noto per il carattere iracondo e violento. La damnatio memoriae voluta dal granduca per i Pinadori pare tra l’altro essere compatibile con i segni di raschiamento ravvisabili su entrambi gli stemmi posti ai lati dell’altare della Visitazione, che oggi non consentono più di individuare chiaramente l’arme che contraddistingueva la casata fiorentina.
La terza afferma che il dipinto fosse stato commissionato per una chiesa fiorentina andata distrutta durante l’assedio del 1529-1530, e che da questa fosse poi stato spostato a Carmignano, nella villa prima e nella chiesa dopo. E’ questa la proposta avanzata da Bruce Edelstein, che nel 2018 ha curato la mostra itinerante “Incontri miracolosi. Pontormo dal disegno alla pittura”, che ha portato la “Visitazione” in giro per il mondo e di cui si dirà più avanti. Per il docente della New York University l’abrasione degli stemmi è plausibile con un nuovo patronato dell’altare, che in tempi successivi poteva essere passato ad un’altra famiglia. Quello che sappiamo per certo è che la pala viene citata per la prima volta come ubicata nella chiesa di San Francesco a Carmignano, e in tale occasione riferita ai Pinadori e al Carucci, in un documento conservato nell’archivio parrocchiale e datato 12 ottobre 1720, quando nel corso di una visita pastorale effettuata dal vescovo di Pistoia Colombino Bassi si registra che all’interno dell’edificio si trova “la tavola della Visitazione all’altare de’ Bonaccorsi di mano del Pontormo”. La data del 1740 che è incisa sotto l’altare sembra riferirsi invece all’installazione dell’edicola che accoglie il dipinto, attestata anche dalla documentazione dei pagamenti.
Certamente l’omissione della “Visitazione” da parte del Vasari l’ha sottoposta ad un lungo e pesante oblio, durato quasi ininterrottamente fino all’inizio del XX secolo, quando lo storico dell’arte Carlo Gamba notò la tavola durante una visita alla chiesa di San Michele e la segnalò attribuendola al Carucci in un articolo intitolato “Un quadro del Pontormo a Carmignano”, apparso su “Rivista d’Arte” nel 1904. A partire da quel momento il dipinto entrò ufficialmente nel catalogo dell’artista, e il suo ritrovamento suscitò un forte interesse nei confronti del pittore manierista, che venne studiato in maniera approfondita non soltanto attraverso l’esame delle sue opere ma anche mediante l’analisi dei suoi scritti, pubblicati per la prima volta in versione integrale nel 1916 nella monografia che Frederick Mortimer Clapp dedicò al Pontormo e infine raccolti in maniera autonoma nel cosiddetto “Diario” a partire dal 1956. Per tutto il Novecento, fino ad arrivare ai nostri giorni, si sono susseguite pubblicazioni specifiche e mostre sia tematiche che monografiche dedicate al Carucci, pienamente rivalutato dopo il giudizio negativo espresso dal Vasari e dalla maggior parte dei critici che dopo di lui furono influenzati dalle parole inclementi che aveva speso nei confronti del collega.
Barbara Prosperi
(Continua ne “La “Visitazione” del Pontormo – Interventi di restauro ed esposizioni”)