La Visitazione di Pontormo

La maestosa pala della “Visitazione” è senza dubbio l’opera più preziosa e più celebre che la chiesa di San Michele Arcangelo in Carmignano custodisce al suo interno, ed uno dei dipinti più riusciti e più importanti di Jacopo Carrucci detto il Pontormo.

Nonostante una vita particolarmente travagliata e costellata di lutti, grazie al suo talento ed alla sua volontà Jacopo riuscì a diventare un pittore di altissima levatura e a mettersi in evidenza sulla scena artistica fiorentina, dominata all’epoca del suo apprendistato e del suo esordio da autentici giganti quali Leonardo, Michelangelo e Raffaello.

L’artista che esercitò maggiormente la propria influenza su di lui fu Andrea del Sarto, con il quale il Carrucci mosse i primi passi in campo professionale, accompagnato in tale percorso dal coetaneo Giovan Battista di Jacopo, meglio conosciuto come il Rosso Fiorentino, tuttavia si affrancò ben presto dall’insegnante per lavorare da solo in perfetta autonomia.

Tra i tanti incarichi ricevuti nel corso della sua lunga carriera spiccano quelli legati ad alcuni dei più illustri esponenti della casata medicea, da papa Leone X a papa Clemente VII, dal duca Alessandro al duca Cosimo I.

Nelle celebri “Vite de’ più eccellenti pittori scultori et architettori” Giorgio Vasari descrive i comportamenti eccentrici del Pontormo e si dilunga ampiamente sulle sue opere, ma ignora stranamente la “Visitazione” di Carmignano.

Questa omissione appare doppiamente singolare, considerate l’enorme rilevanza che il dipinto occupa nel percorso professionale dell’artista e l’accuratezza documentaria del biografo aretino, che peraltro aveva conosciuto personalmente il Carrucci e poteva inoltre contare sulla testimonianza del suo più valente allievo e più caro amico, Agnolo di Cosimo di Mariano detto il Bronzino, oltre che su quella dello Spedalingo degli Innocenti, il letterato ed amico Vincenzo Borghini.

In mancanza di dati certi gli storici dell’arte hanno versato i proverbiali fiumi d’inchiostro, nel tentativo di dare una datazione plausibile all’opera e di comprenderne il significato profondo.

Dal punto di vista stilistico la “Visitazione” appare vicinissima ai dipinti che Jacopo eseguì per la Cappella Capponi nella chiesa fiorentina di Santa Felicita, edificio ubicato a pochi passi dal Ponte Vecchio, al cui interno passa il famosissimo Corridoio Vasariano.

Poiché è sicuro che essi furono realizzati tra il 1525 e il 1528, i critici si sono orientati verso una data che si situi nelle immediate vicinanze di tale ciclo figurativo, e più precisamente in un arco temporale compreso tra il 1528 e il 1530.
Alcuni studiosi tuttavia preferiscono una diversa collocazione cronologica ed assegnano la pala agli anni 1536-1538, in prossimità dell'”Alabardiere” conservato al John Paul Getty Museum di Malibu, in California, che una parte della critica ritiene eseguito nel 1537.

Se la questione concernente la data – pur se approssimativamente – è stata delimitata, rimane da capire come e perché un quadro di tale prestigio sia finito in un piccolo borgo come quello di Carmignano.

La prima osservazione che si può fare è che sicuramente l’opera non venne commissionata in ambito parrocchiale insieme alle altre cinque pale d’altare presenti nella chiesa, dato che in confronto al dipinto del Pontormo queste ultime hanno dimensioni sensibilmente diverse – ma tutte uguali tra di loro -, come si può facilmente evincere da un semplice esame visivo, e appurato che la loro esecuzione risale alla prima metà del XVII secolo.

Alla luce di questa considerazione pare dunque poco probabile che in quel momento la tavola del Carrucci fosse già presente nell’edificio, giacché in tal caso le altre pitture avrebbero dovuto uniformarsi alle sue caratteristiche.

Un indizio interessante ci viene però fornito dalla iscrizione posta sotto la mensa dell’altare su cui poggia il quadro, nella quale viene indicata la data del 1740. Essa si riferisce con ogni probabilità all’anno in cui il dipinto venne posizionato in loco.
E’ noto ormai da tempo che la pala venne eseguita per la famiglia fiorentina dei Pinadori, che possedeva dei terreni ed una villa nella zona di Carmignano, ed è quindi probabile che prima di essere collocata nella pieve del paese la tavola abbia trovato posto nella cappella privata della suddetta villa se non addirittura nel palazzo di città.
Un documento d’archivio recentemente venuto alla luce afferma che in data 28 Giugno 1538 Bartolomea Pinadori, vedova di Pietro di Paolo di Bonaccorso Pinadori, stilava l’atto di dotazione dell’altare di famiglia nella chiesa di Carmignano, dedicandolo alla Visitazione e dando disposizione che ogni anno vi venisse celebrato un certo numero di messe. Normalmente tra la dedicazione di un altare e la messa in posa del suo corredo figurativo trascorreva un breve periodo di tempo, tuttavia è possibile che per qualche ragione il dipinto fosse stato costretto a rimandare il suo ingresso nell’edificio religioso e a rimanere pertanto nell’abitazione privata.

Il soggetto raffigurato nella tavola si riferisce ad un episodio narrato nel “Vangelo secondo Luca” (I, 39-56) e rappresenta l’incontro avvenuto tra Maria ed Elisabetta dopo l’annuncio dell’Incarnazione del Salvatore. Secondo la tradizione l’abbraccio tra le due donne simboleggia il passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento, ma è stato interpretato anche come allegoria dell’incontro tra l’Ebraismo e il Cristianesimo – o tra la Chiesa d’Oriente e quella d’Occidente – e infine come emblema della transizione tra la vecchia Chiesa di Roma ed una nuova Chiesa completamente riformata, quale era vagheggiata a Firenze fin dai tempi della Repubblica di Savonarola, che aveva anticipato le istanze che sarebbero state espresse vent’anni più tardi dalla Riforma protestante, e che tuttavia aveva terminato i suoi giorni impiccato ed arso nel tragico rogo appiccato in piazza della Signoria il 23 Maggio del 1498.

In un clima politico e religioso estremamente teso qual era quello della Firenze degli anni Trenta del Cinquecento, sulla quale si allungava, come sull’intera penisola, l’ombra minacciosa della Controriforma, e sulla quale era inoltre tornata a dominare con velleità assolutistiche la dinastia medicea, tale allusione, voluta o meno tanto dal committente quanto dall’artista, poteva esporre l’opera ad un concreto rischio di distruzione, perciò è plausibile ipotizzare che essa sia stata occultata in attesa di tempi migliori.

Tale congettura pare trovare conferma nella dichiarazione di Giovanni Cinelli, che nel 1677 commentò le “Bellezze della città di Firenze” scritte da Francesco Bocchi nel 1591. In un passo del libro egli afferma di aver ammirato il disegno preparatorio della “Visitazione” – attualmente conservato al Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi – nella collezione del senatore Andrea Pitti, e a tal proposito segnala la presenza del dipinto nella villa che i Pinadori avevano a Carmignano anziché, com’era più logico supporre, nella pieve del paese.

Tra le varie ipotesi avanzate non va peraltro trascurata quella che considera la famiglia Pinadori poco gradita ai Medici, per i quali Vasari lavorava e che certamente non intendeva irritare citando persone o casate che non riscuotevano il loro favore.
Per quanto riguarda l’iconografia, nella “Visitazione” di Carmignano l’incontro tra Maria ed Elisabetta aderisce al modello dell’abbraccio reciproco. Generalmente si riscontrano cinque tipologie pricipali nel soggetto della “Visitazione”, e cioè l’abbraccio tra le due donne, appunto, il bacio sulla guancia, la stretta di mano, il saluto a distanza, oppure l’inchino di Elisabetta nei confronti di Maria, ma non è infrequente che tali modelli figurativi si combinino tra di loro, in maniera tale che in molte opere le due gestanti si abbracciano e si baciano, oppure si tengono le mani mentre si scambiano un bacio, oppure ancora con un braccio si cingono le spalle e contemporaneamente, con l’altro, si stringono la mano.

Gli esempi sono molteplici e nella sola città di Firenze è possibile ammirare una enorme quantità di queste raffigurazioni, dalla “Visitazione” dipinta da Taddeo Gaddi nella Cappella Baroncelli di Santa Croce a quella realizzata da Domenico Ghirlandaio nella Cappella Tornabuoni di Santa Maria Novella, da quella firmata da Mariotto Albertinelli, attualmente esposta alla Galleria degli Uffizi, a quella che lo stesso Pontormo eseguì all’inizio della sua carriera nel Chiostrino dei voti della Santissima Annunziata, per citare soltanto alcune delle più belle.

A tal proposito non è superfluo ricordare che il popolo fiorentino è da sempre devoto alla Vergine Maria, a cui non a caso ha dedicato anche la propria cattedrale, ed è per questo motivo che ha sempre commissionato agli artisti succedutisi nei secoli quadri destinati alla devozione privata, pale d’altare ed interi cicli pittorici incentrati sugli episodi più importanti della vita della Madre di Dio.

La “Visitazione” di San Michele in Carmignano risente, nello splendido spettacolo offerto dai colori cangianti degli abiti di Elisabetta e di Maria, e nel monumentale grandeggiare dei corpi delle due cugine, dell’influenza michelangiolesca tanto nella tavolozza, desunta dal “Tondo Doni” e dagli affreschi della Cappella Sistina, quanto nelle proporzioni delle quattro figure, imponenti e poderose.

Non è ben chiaro chi rappresentino e quale sia la funzione svolta dalle due donne che si accompagnano a Maria ed Elisabetta, di cui sono le rappresentazioni speculari, con le vesti dai colori invertiti, che molti testi indicano sbrigativamente come “ancelle”. Sicuramente il loro sguardo, fisso sull’osservatore, serve a richiamarne l’attenzione sul grande mistero raffigurato nella pala, sulle due prodigiose gravidanze, sul sentimento di trepidazione e di attesa vissuto dalle due future madri, sullo straordinario destino che attende i nascituri.

L’artista evidenzia in maniera particolare i grembi gonfi delle gestanti, mette in rilievo le loro straordinarie, imminenti maternità, sottolineate dai panneggi voluminosi delle vesti, tuttavia le loro forme piene e rotonde non comunicano un’impressione di pesantezza, ma danno l’idea di levitare leggere sulle punte dei piedi, quasi sospese in un passo di danza.

L’incontro tra Maria ed Elisabetta costituisce il primo riconoscimento pubblico di Gesù, perché, quando la prima si accosta alla seconda, quest’ultima avverte il piccolo sussultare dentro il suo ventre e le rivolge le seguenti parole: “Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo! A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore!” (Luca I, 42-45).

Sul fondo del quadro si notano due piccole figure virili, che alludono probabilmente a Giuseppe e Zaccaria, rispettivamente padre putativo del Redentore il primo e padre reale del Precursore il secondo. La loro presenza è relegata in secondo piano, a sottolineare che la Salvezza passa attraverso le due sante donne.
Lo sguardo che esse si scambiano, il loro fissarsi intensamente negli occhi, equivale ad un muto colloquio che mette in risalto la loro intesa psicologica, il riconoscersi parte di uno stesso disegno soprannaturale, l’accettazione incondizionata e serena, da parte di entrambe, di una volontà suprema, divina.

L’atmosfera in cui Maria ed Elisabetta sono immerse ha qualcosa di metafisico, di altamente spirituale, di solenne. Le loro forme sono ferme e composte, il loro atteggiamento calmo e pacato, il loro incontro sembra svolgersi in una dimensione rarefatta e irreale, silente, fuori dal tempo e dallo spazio, come pare suggerire anche l’indeterminatezza spaziale dell’ambientazione.

Benché al Pontormo si offrisse uno sterminato repertorio figurativo da cui prendere spunto per la scelta del modello a lui più congeniale, solitamente vengono indicati come precedenti della “Visitazione Pinadori” un rilievo di epoca romana di soggetto matrimoniale, e due incisioni del Durer raffiguranti una “Visitazione” e un gruppo femminile denominato “Le quattro donne” o “Le quattro streghe”. Nonostante la ben nota predilezione del Carrucci per le stampe dell’artista tedesco, cui guardava per trarne ispirazione, l’opera del Pontormo si segnala tuttavia per una sua indubbia originalità, personale e profonda, matura e meditata, caratterizzata da una immensa intensità emozionale. Essa riflette certamente un momento di equilibrio, di serenità, di pace interiore, così ricercati e così rari nella vita tanto tormentata del pittore, che ebbe un percorso esistenziale particolarmente difficile e doloroso.

L’estrema eleganza formale, il raffinato cromatismo, il sapiente gusto compositivo fanno di questo dipinto uno dei più alti capolavori di Jacopo da Pontorme, una di quelle opere rare e felici che costituiscono un unicum irripetibile nella carriera di un artista, e che sono destinate a lasciare un segno profondo nella storia dell’arte così come nell’immaginario collettivo della gente.

Per gentile concessione di
Barbara Prosperi (articolo pubblicato su “Metropoli” il 4 Aprile 2014)

Translate »