Romanico e neoromanico

di Lorenzo Petracchi

Con il risveglio dopo l’anno 1000 si svilupparono nel nostro territorio insediamenti ecclesiali e monastici che, lentamente, nei secoli successivi diedero vita a nuclei abitati che poi sono diventati gli attuali paesi e borgate. Molti si svilupparono intorno alle chiese romaniche sorte sulle pendici del Montalbano, sia a ponente che a levante.

La Comunità di Carmignano ha acquistato la sua attuale fisionomia dopo il 30 luglio 1774, quando gli antichi statuti di Carmignano paese, Comeana, Artimino, Bacchereto e Baccheretana furono aboliti e i rispettivi Comuni aggregati per diventarne un solo, con sede a Carmignano. Era stato Bicchi a cercare di dare omogenità geografica al comune: nominato “maire” (ovvero sindaco) durante l’occupazione napoleonica, aveva lasciato alla comunità di Tizzana la parte in pianura che comprendeva San Biagio e San Michele a Vignole ed ottenuto da questa Colle, da Prato Montalbiolo e da Capraia e Limite Le Busche e Poggio alla Malva.

Tutte le attuali parrocchie sono il nucleo di una cometa la cui scia si perde nei secoli e che le collega, dal X e al XIII secolo, all’architettura romanica. Solo all’architettura, perché di quel periodo ci è pervenuto ben poco, se non poche tracce di affreschi della chiesa di Artimino. Sotto il pavimento della chiesa di san Martino in Campo fu trovato invece un manufatto che dava l’impressione di essere un architrave dove erano incisi simboli in bassorilievo. Fu posto sopra il fonte battesimale dove è tuttora visibile.

Certo, non tutte le chiese romaniche del periodo sono giunte a noi nelle loro originali forme. Nel corso dei secoli alcune furono abbattute, altre totalmente modificate dopo il Concilio di Trento, altre nel ventesimo secolo (circa 70 anni fa) furono soggette ad arbitrari restauri (vere devastazioni) per scarnificare quegli edifici degli orpelli barocchi e creare così un architettura “bastarda” che con molta bonomia l’esperto del romaico pistoiese – Claudio Gori – definisce “neoromanico del XX sec”.

Fu una vera furia iconoclasta quella degli anni ’50 – ’60 del secolo scorso ad opera e fantasia di architetti visionari, di preti estrosi, di intellettuali di varie estrazioni ideologiche (stranamente concordi) e di intendenti alle Belle Arti affascinati dai miti medioevali cui cercavano di ridare nuova vita. Non pensarono che riportare alla luce l’originale architettura romanica di quelle chiese sarebbe stata un’impresa carica di incognite. Nei secoli questi edifici avevano subito modifiche dovute al variare del senso estetico, ma anche al mutare della liturgia. Erano stati dunque resi conformi alle necessità dei tempi.

Furono poche le chiese dal X al XIII secolo che non subirono arbitrarie e inverosimili trasformazioni quando gli architetti, di fronte al nulla che avevano creato, cominciarono ad “inventare”. Da qui l’azzeccata definizione di Gori: “neoromanico del XX secolo”. Si distrusse qualcosa di reale – gli arredi barocchi, e talvolta rinascimentali – senza riuscire ad approdare all’originale romanico.

Si trovarono, i cosiddetti restauratori, a dover gestire spazi vuoti e asettici che in qualche modo dovevano essere resi usufruibili per officiare i riti religiosi. E con pezzi originali del XI, XII e XIII secolo si inventarono altari, amboni e fonti battesimali, si chiusero finestre per ricreare bifore. Nacque una nuova architettura che romanico originale non era anche se del romanico aveva una parvenza. (fine prima parte)

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