La beffa degli internati militari

“D’ACCORDO, ero un militare ! Ma cosa c’entra. In Germania sono stato costretto a lavorare anch’io: dalla mattina alla sera. E pure io, dopo due anni, sono tornato a casa quasi per miracolo. Pesavo appena 36 chili !”. L’appello ed il gesto di stizza arrivano dalle colline del Montalbano, in provincia di Prato. Ma riguardano in fondo tutti gli ex militari italiani internati in Germania all’epoca della Seconda Guerra Mondiale. Almeno quei pochi oggi sopravvissuti. Un cavillo beffa rischia difatti di privare dei risarcimenti stanziati lo scorso luglio dalla Germania questi deportati un po’ particolari. Lo sfogo risale al 2001, ma da allora niente è cambiato. Anzi, si è aggiunto maggior scoramento.

Corrado Capecchi era un carabiniere di stanza in Albania quando, all’indomani dell’8 settembre 1943, fu preso dai tedeschi per poi finire in un campo di lavoro: uno degli ultimi quattro o cinque carmignanesi tradotti in Germania e poi fortunatamente tornati. Nel 2001 ha saputo che l’indennizzo ai deportati costretti a lavorare per i nazisti e le loro aziende non riguarda i prigionieri di guerra e si è giustamente infuriato. Non per i soldi. In fondo dei 10 miliardi di marchi stanziati dalla Germania solo 540 milioni finiranno in Europa e nei Balcani: il resto è tutto per gli ebrei dell’Est. Come dire: al massimo si tratta di qualche spicciolo. E per giunta agli eredi non spetterà in genere niente. Ne fa però un punto di principio. “E’ un oltraggio – sbotta – Dopo i ritardi, ora anche la beffa…” La situazione è comunque più complicata di quanto possa sembrare. Ed uno spiraglio forse c’è, anche se certo non contribuiscono a fare chiarezza le lettere inviate a fine settembre 2000 dall’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci alle proprie sezioni locali o i manifestini affissi nelle settimane successive nei negozi dei paesi. Per avere qualche informazione in più allora siamo dovuti arrivare fino a Roma, agli uffici italiani della I.O.M. che è l’Organizzazione per la Migrazione delegata a raccogliere le domande di tutti gli italiani e tenere i rapporti con la neonata fondazione pubblica tedesca “Memoria, Responsabilità e Futuro”, che quei fondi dovrà gestire. E’ vero difatti che per il diritto dei popoli i prigionieri di guerra possono e potevano essere impiegati per lavoro coatto dal paese d’arresto. E a tale norma si rifà in effetti il contestato articolo della legge promulgata dal parlamento della Germania Federale, dopo lunghe discussioni, lo scorso 14 luglio, escludendo apparentemente i militari dagli indennizzi che andranno ai cosiddetti “schiavi di Hitler”. Ma lo status degli italiani era particolare. Come abbiamo ricordato raccontando la storia di quegli anni, quanti vennero arrestati dopo l’8 settembre spesso non furono considerati prigionieri, ma portati allo stato di lavoratori civili e “liberi”. O arrestati come tali e poi trasformati. “Io ho delle attestazioni in tedesco in cui viene documentata l’attività che ho svolto” conferma indirettamente di nuovo Corrado, che nel 2002 ha scritto anche a Ciampi. I tedeschi pare però che abbiamo rispedito al mittente qualsiasi rilievo ed opposizione. L’unica speranza, magra, è affidata ad un risarcimento italiano (con risorse italiane) su cui dovrà pronunciarsi il Parlamento.

Norme di principio e diritto internazionale contro ragioni storiche: una vera e propria battaglia. Per evitare la confusione che inevitabilmente ora si è generata, a giugno il presidente nazionale dell’Associazione Ex Deportati, il senatore ed avvocato Maris, aveva scritto ai massimi vertici delle istituzioni italiane perché si attivassero in campo internazionale. Già la bozza di quel testo difatti circolava. E nella fondazione tedesca non sedeva neppure un rappresentante italiano. Ma nessuna risposta è arrivata. Spetta alla Germania decidere sull’interpretazione di questa norma dubbia. All’I.O.M. di Roma nel 2001 consigliavano comunque agli internati militari di presentare in ogni caso domanda. Che lo status di prigioniero di guerra e militare non siano una condizione sufficiente per godere degli indennizzi, non vuol dire infatti che vada considerato un ostacolo vero e proprio. “E più documenti uno riesce a produrre sull’attività svolta in Germania, – spiegavano – meglio è”. (wf)

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