… e in Ombrone si sciacquavano i panni

Un viaggio attraverso i ricordi ed il passato. Una vecchia cartolina ingiallita o qualche foto annerita dal tempo può bastare a restituirci un angolo di paese, con le sue case, piazze e monumenti. Per capire l’atmosfera che vi si respirava, i suoni, giochi ed incontri che lo circondavano, occorreva invece farselo raccontare da chi quegl’anni li ha vissuti direttamente.Con questa idea, in fondo semplice, inizia il nostro viaggio alla riscoperta della provincia come era.

Comeana aveva un rapporto particolare col suo fiume, l’Ombrone, che, anche se non l’attraversa da parte a parte, rasenta e vi passa assai vicino. Quando ancora l’acqua in casa era un lusso vi si andava a lavare i panni. Ma ci si faceva pure il bagno. Gli uomini ne approfittavano durante il giorno. “A noi donne – racconta Norina Cirri a 86 anni – era permesso solo la notte, quando dalla piazza non rischiavamo di esser viste”. Lo racconta nel 2003. “Bastava difatti poco – proseuge – per perdere la reputazione o venir additate. E quel fiume non era certo scuro e melmoso come oggi, ma chiaro e pieno di pesci “. Erano tempi in cui la libertà di costumi era sicuramente minore: si doveva stare attenti anche solo a farsi vedere assieme ad un ragazzo od entrare in un bar.

Le vie erano buie e sterrate. “A volte quando andavo la sera a portare il latte al nonno, avevo paura” ricorda Norina. Attorno agli anni Venti gli unici lampioni in tutto il paese erano difatti appena quattro: uno dove ora sorgono le scuole, un secondo alla chiesa, l’altro vicino alla farmacia e l’ultimo in piazza, davanti alle Poste. Ad accenderli, ogni sera, ci pensava un incaricato del Comune che viveva in paese. E in parecchie case, fino al 1945, ci si muoveva con la candela e la lampada a petrolio.

Ma di quegli anni lontani Norina, che oggi ha i capelli grigio perla, gli occhi ancora curiosi (pur nascosti dietro a due spesse lenti) e vari nipoti, conserva inevitabilmente anche dei bei ricordi. “Vivevamo con gli usci sempre aperti – racconta – ed anche se tutt’attorno c’erano campi giocavamo per strada. Al massimo passava difatti qualche ciuco o alla mattina i barrocci trainati dai cavalli che portavano a Firenze il lastrichino delle vicine cave di pietra serena, dove parecchi uomini del paese, quasi tutti prima dell’apertura della polveriera ex N.O.B.E.L., hanno lavorato fino a dopo la guerra”. Andare a Firenze o a Prato non era uno scherzo: c’era la carrozza, ma solo una volta alla settimana. L’alternativa era la bicicletta (per i più fortunati) o i propri piedi. I bambini giocavano per strada a “campana”, a “cirulì” o “stinchi filinchi”. “E la mattina, quando ci alzavamo, c’erano Diego con le sue capre che in piazza era pronto a mungere il latte caldo per chiunque lo volesse”. “Ma si durava anche parecchia fatica” annota l’anziana comeanese. “Fin da piccole in casa lavoravamo la treccia per realizzare i cappelli di paglia. Ed anche lavare i panni era un’impresa. Li insaponavamo sul greto dell’ Ombrone – dice – e poi in grandi panieri li portavamo a casa per bollirli con la cenere, il gichero o l’erba medica: l’acqua la prendevamo dai fontanelli sparsi per i paesi, dove non mancava la fila. Ce n’era uno a “Bottega” di faccia alle scuole, uno appena passata la chiesa, in piazza e a La Volta. Qualche anno più tardi fu messo anche in Chioccioli (oggi via Vittorio Veneto ndr). Dopo averli bolliti tornavano poi a sciacquare i panni sul fiume. E spesso li stendevano ad asciugare lì”. “Era davvero una fatica, – si sofferma un attimo Norina – ma venivano anche più puliti”. (wf)

Nota: Nonna Norina se ne è andata a settembre 2013.

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