Quando tra Arno e Ombrone si scavava la pietra serena

A POGGIO a Caiano, a due passi dalla centralissima piazza del mercato, sorge un’azienda che forse è una delle ultime della zona a lavorare la pietra serena. A Comeana ce ne sono un altro paio. Ma non lavorano più la pietra che si scavava alla Gonfolina di Comeana fino a mezzo secolo fa. Sono difatti oramai lontani i tempi in cui quelle cave erano attive. Oggi la pietra, per le poche aziende sopravvissute, proviene da altri luoghi (specialmente da Firenzuola) e la lavorazione industriale ha avuto il sopravvento. Cercare di arrestare il progresso sarebbe anacronistico e puerile. Tornano però alla mente le parole con cui Ruskin, nell’Ottocento, denunciava quel “silenzio colpevole nel quale, sotto l’incalzare della rivoluzione industriale, si va perdendo la somma di infinite informazioni accumulate negli antichi mestieri”. Il lavoro dello scalpellino, soprattutto sul Montalbano, appartiene difatti oramai al passato. Ma è il non parlarne, il non rendere minimo omaggio alla storia di quegli uomini (in fondo, quasi un paese intero), che fa male. Un articolo può servire anche a lenire questo dolore. La storia degli scalpellini meriterebbe difatti un museo, come un museo (o una parte di esso) potrebbe essere benissimo dedicato alle trecciaiole che copiose, in tempi neppure troppo lontani, lavoravano la paglia a Poggio a Caiano. A dire il vero qualcuno ci aveva già pensato. Alcuni anni fa taluni cittadini e vecchi scalpellini di Comeana proposero di realizzare nelle vecchie cave della Gonfolina, dove ancora oggi sopravvivono i ruderi delle baracche di un tempo, un museo all’aperto.

L’amministrazione comunale (di allora e di oggi) parve interessata. Ma poi, stante anche la difficoltà di mettere d’accordo i numerosi proprietari fra cui quei terreni erano e sono suddivisi (a volte deceduti e di cui non si conoscono neppure gli eredi), non se ne fece di nulla. Unica testimonianza ed omaggio tangibile a quegli antichi scalpellini – ed atto di resistenza contro l’oblio generale – rimane un bassorilievo di Giuseppe Caselle, apprezzato artista locale, che la Pro Loco di Carmignano ha voluto installare all’inizio di via Vittorio Veneto a Comeana, incassato in una nicchia proprio lungo la strada che portava alle cave. Ma alla cave ci si arriva anche da Signa, lungo la riva dell’Arno o dell’Ombrone. E quando scorgiamo in lontananza il masso della Gonfolina, basterebbe forse chiudere gli occhi un attimo per immaginare quel ritmico e caratteristico picchiettio di mazzuoli che, come il ronzio di un operoso alveare, si udiva un tempo a centinaia di metri distanza, mentre sul fiume scivolavano su grossi barconi (fino a quando il trenonon fece il suo arrivo anche a Carmignano) lastre di pietra che prendevano la via di Livorno. Inerpicandosi poi verso i vecchi costoni, ci imbattiamo nelle baracche che servivano da spogliatoio, mensa e luogo di lavoro durante le giornate di pioggia, negli stanzini dove venivano riposti i mazzuoli, mazzette, subbie, scalpelli e metri (e poi ancora righe, squadre, sesti e modani, le bocciarde, gradine e martelline), nel ciottolaio e nel piazzale che spettava ai ragazzi tenere in ordine. Di fianco alle capanne sopravvivono tutt’oggi i fichi che gli operai avevano piantato, per riparasi dal sole quando non si usavano le stuole. E basterebbe forse solo un ultimo sforzo per immaginare, seduto sotto uno di essi, un vecchio scalpellino, a gambe incrociate su un cassetta che serviva anche da borsa del mestiere, intento a lavorare una pietra. (wf)

VIAGGIANDO lungo la linea ferroviaria Firenze-Pisa, proprio quasi davanti alla stazione di Carmignano, ci imbattiamo sulla sponda opposta del fiume in un masso incombente sulla strada provinciale: è il “masso delle fate”, o più propriamente detto della Gonfolina. Sul suo conto di storie e leggende nei secoli ne sono state raccontate parecchie. Leonardo supponeva che “in antico” quel masso si saldasse con le propaggini meridionali del Monte Albano, si da formare nella pianura di Firenze-Prato e Pistoia un enorme lago. Poi qualcuno o qualcosa l’ha tagliata. C’è chi racconta abbastanza fantosiamente (ed anche il Villani riporta la leggenda) che l’autore di ciò sia stato Annibale. Ma a suoi tempi (e sicuramente anche nel periodo di splendore de-gli Etruschi) l’Arno aveva già trovato la sua via verso la foce. Un aurea suggestiva di mistero continua comunque a circon-dare quel luogo. (wf)

PROPRIO per l’ estro e la capacità di esecuzione di numerosi lavoratori, i manufatti delle cave di Comeana avevano assunto grande rinomanza: prima vicino, in particolare a Firenze, Prato e Montecatini (dove erano molto apprezzati) e poi addirittura all’estero, dove alcuni – in Svizzera e Francia – si recarono a lavorare con discreto successo. Per questo la produzione aumentò, nonostante il calo delle maestranze dovuto alle crisi seguite alle due guerre; e raggiun-se il suo punto massimo nel secondo dopoguerra, con l’aumento della richiesta di pietra per la ricostruzione. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta il calo fu inevitabile, fino alla chiusura, per via della forte richiesta di operai dell’industria tessile di Prato che vuotò cave e campagne, e alla scoperta di pietra più “morbida” e quindi facilmente lavorabile con le macchine.(wf)

NON è certo un caso se le cave di pietra serena più grandi della zona fiorentina sorgono a ridosso di Artimino e Fiesole, gli abitati etruschi più importanti (o al meno tra i più importan-ti) nel nord dell’Etruria. A conferma difatti di come lo scavo e la lavorazione nelle cave di Comeana, presso la foce in Arno del torrente Ombrone, abbia origini assai antiche ci sono le tante pietre squadrate trovate in tutte le tombe etrusche della zona. La capacità di lavorazione e l’arte di questi nostri avi era già eccelsa: basti ammirare la porta di chiusura della tomba di Montefortini, alcune parti della tomba di Boschetti o Prato Rosello, per finire con la sepoltura di Grumulo situata proprio sopra le cave. I segni dello scalpello sono evidenti. Il lavoro vero e proprio di estrazione della pietra ha iniziato però ad avere rilevanza nell’economia dell’area solo a partire dalla metà del Settecento, anche se lo storico Targioni Tozzetti, nelle sue relazioni del 1741, cita un documento addirittura del 1269 in cui le cave cosiddette “della Gonfolina” sono già rammentate e lo storico Repetti un altro del 9 maggio 1124. La pietra che vi si scavava era assai “consimile per grana, colore ed uso a quella fiesolana”, ci informa sempre il Repetti nell’Ottocento. Nel 1790, stando agli archivi comunali e diocesani, lavoravano così nelle cave già 60 persone; nel 1812, come risulta dallo stato delle anime redatto dal parroco del posto, i lavoranti erano saliti a 90. Il lavoro era molto duro, le tecniche ancora primitive. Per via della ripidezza del monte, si lavorava per lo più a cielo aperto. Si scavava nella parte più bassa, ci descrive il Targioni-Tozzetti, e poi dando fuoco ai puntelli in legno si faceva franare l’intero costone. Nonostante le condizioni di lavoro impensabili ai giorni nostri, la richiesta di pietra lavorata aumentava e nel 1881 erano 11, con circa 140 addetti su una popolazione a Comeana di 1427 abitanti, le cave di arenaria attive sulla riva dell’Arno. Nel 1901 gli abitanti erano saliti a 1724 e gli operai a 164. Le paghe si aggiravano su una media di 1,80 lire giornalie-re e solo dopo una lunga serie di scioperi che si conclusero nel 1906 diventarono orarie. Nel 1911, racconta il carmignanese Giuseppe Rigoli in un interessante libretto di note storico-statistiche pubblicato nel 1914, le cave attive erano cresciute fino addirittura ad arrivare a 33. Se a queste si aggiungono poi le 30 del comune di Lastra a Signa, situate proprio sull’altra sponda dell’Arno di fronte a quelle di Carmignano, si ha un totale di oltre sessanta: segno evidente di come questo materia-le fosse richiesto. Gli operai adulti impegnati erano attorno ai 300 e 50 i ragazzi sotto i quindici anni: una forza lavoro, per quegli anni, sicuramente imponente. Poi, dopo il secondo dopo guerra, è iniziato un lento, inarrestabile declino. Ancora negli anni Cinquanta alla stazione di Carmignano erano attive quatro cave; e nella Gonfolina ve ne erano almeno un ventina con un centinaio di addetti. Ma erano per lo più anziani, mancava il ricambio giovanile. Di queste aziende inoltre solo sei avevano introdotto l’escavazione con martelli pneumatici ed appena quattro possedevano un camion per il trasporto del materiale, mentre la lavorazione avveniva ancora tutta manualmente. Oramai i giovani privilegiavano lavori più redditizi, ed anche quelli (pochi) che si diceva avessero la polvere nel sangue,preferivano trovare lavoro nelle botteghe dei marmisti. (wf)

NELLE cave si lavorava dalle otto alle dieci ore al giorno e gli scalpellini erano divisi in categorie o classi, ognuno con uno stipendio diverso. Si andava dalla “primissima”, alla quale appartenevano gli specialisti, i capibranca, i lavoratori di fino, che nel 1914, quando il Rigoli scrive, guadagnavano da 45 a 55 centesimi l’ora (nel 1906, quando le paghe erano diventate ora-rie, erano attorno ai 30) per passare poi ai lavoratori di prima, caporali e scalpellini abili, pagati tra i 40 e i 45 centesimi. Alla seconda classe appartenevano gli scalpellini, i cavatori e gli incisori di lettere di secondaria importanza, che guadagnava da 35 a 37 centesimi (28, nel 1906). C’erano poi i cavatori e gli scalpellini di età avanzata (invecchiando, si veniva idfatti pagati di meno), che prendevano da 28 a 34 centesimi l’ora (26 nel 1906) per finire ai “bardotti”, che a seconda delle capacità venivano pagati dai 18 ai 28 centesimi. Quest’ultimi erano più o meno dei manovali e in gran parte ragazzi, visto che anche nelle cave il lavoro minorile era assai diffuso. Gli incidenti certo non mancavano. Ma un altro grande nemico degli scalpellini era la silicosi. Quella polvere finissima che si depositava nei polmoni non era sconosciuta, ma scarsissimi erano i metodi per combatterla. Sempre il Targioni-Tozzetti scrive alla fine del Settecento: “quando gli scalpellini hanno necessità di spaccare i massi a forza di subbie e di cunei avvertono sempre di versare dell’acqua nella fessura dove forzano i cunei, perché altrimenti volerebbero in alto certa polvere finissima che offenderebbe i loro polmoni …”.(wf)

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