Storie di guerra e di sfollati

Il 27 gennaio 1945 gli alleati entravano nel campo di sterminio di Auschwitz in Polonia, liberando gli ultimi prigionieri. La data è diventata il simbolo della fine dell’olocausto e per questo dal 2000 l’Italia ha scelto di celebrare il 27 gennaio il giorno della memoria: per non dimenticare, per ricordare la guerra e costruire in questo modo un futuro di pace.

I primi ricordi. Era il giorno di San Antonio, il 17 gennaio del 1944, quando gli alleati iniziarono a bombardare con gli aerei Comeana. “Io abitavo a Chioccioli, pressappoco dove ora” racconta Norina. Le bombe fortunatamente caddero solo nei campi: una vicino alla chiesa, altre nell’Ombrone. “Due donne che erano lì a lavare i panni si presero però un gran spavento – aggiunge – Un ragazzo invece morì, colpito dalle schegge dopo essersi erto sugli argini. Aveva visto gli aerei e voleva ammirarli”. Non ci sono eroi né deportazioni nella storia di Norina Cirri, un po’ traballante per l’età ma con due occhi ancora chiari e vivi: solo il ripetersi dei gesti di ogni giorno. Ma è con il suo vissuto quotidiano (e la guerra a pochi chilometri e a volte metri di distanza) che abbiamo pensato di ricordare il giorno della memoria. Storie di guerra subita, di “bombe sempre poco intelligenti”: come gli sfollati oggi della Cecenia o in Afghanistan, in Africa o in Palestina.

Santa Maria di pace. Nel 1944 Norina aveva 27 anni, ora ne è ha compiuti 85. Sprofondata nella poltrona racconta della sirena della Nobel che suonava ogni qual volta passavano gli aerei americani, del fuggi fuggi per i campi, dei bengala che rischiaravano la notte. “Quando l’11 giugno i partigiani fecero saltare i vagoni a Poggio alla Malva – racconta – gli americani erano ancora lontani. Poi arrivarono e si fermarono di là dall’Arno”. “Per Santa Maria non tirarono neppure una cannonata – annota – Ma il giorno dopo ricominciarono”.

La fuga da casa. All’indomani del bombardamento di Sant’Antonio, Norina prese il figlio di neppure tre anni ed andò con il marito Napolino dalla sorella Leda al “villin delle stelle”: lungo la strada che porta a Carmignano, meglio riparato dal monte. “Se una bomba fosse caduta sulla vicina Nobel (l’immenso stabilimento di mine e polvere da sparo appena al di là dell’Ombrone, nascosto nella boscaglia ndr) stare in Chioccioli poteva essere pericoloso” dice. La paura spinse molti negli scantinati o nei rifugi scavati nella terra. Sapevano che la guerra si avvicinava e li avevano costruiti per tempo. Uno era in via Volta, laddove ancora oggi si erge un tabernacolo con una madonna (forse un ex voto). Quello di Norina era nel bosco, scavato nella collina, sotto quella che ora è via Tommaso Moro e all’epoca solo campi. Nel mezzo “un bel rio ed un ponticino costruito da noi”. “All’inizio ci andavamo solo di giorno e dormivamo dal pecoraio al Colombaione – racconta – Dalla fine di luglio non ci spostammo più neppure la notte”. Riparato dalla costa del monte, era ottimo contro qualsiasi cannonata vagante degli alleati al di là dell’Arno. Norina pare un fiume in piena. Gli aneddoti si rincorrono sempre più velocemente: ora nitidi, a volte più confusi. E i ricordi si accompagnano inevitabilmente anche a colori e profumi. “Il pane dei tedeschi – racconta – era nero. Fortino, il padre di mio marito, ne prese un pezzo che un gruppo di tedeschi avevano lasciato su una panchina in piazza. Ne venne fuori una minestra di pane buonissima”. La fame, del resto, era tanta. “Il pane degli americani – aggiunge – era invece bianchissimo. Non so cosa ci mettessero”.

Per casa una grotta. Vivere in un rifugio, lungo non abbastanza per stendersi a dormire ma alto sufficientemente per alzarsi in piedi, non deve certo essere stato facile. La volta era architravata con legni di pino, ma non c’erano porte. Per scaldarsi solo il sole. Quello di Norina era il più piccolo: ci vivevano quattro donne, due uomini ed un bambino. Accanto ce n’era un secondo, “abitato dal Cincella, quelle figliuole e tanti altri”: più di dieci persone. Due morirono e ci furono anche i pidocchi. “Certo a ripensarci ora – riflette – abbiamo vissuto per oltre un mese proprio come zingari: senza lavarci, a sedere quasi tutto il giorno in una grotta”.

L’aereo cicogna abbattuto. “Il ricognitore americano, la “cicogna”, passava tutte le mattine sopra Comeana – spiega Norina – Ronzava ed andava lento. Ed un giorno i tedeschi, con l’artiglieria in via Macia, lo tirarono giù”. Cadde ad Artimino. “Mi ricordo ancora di come ballavano felici i tedeschi – si sofferma un attimo, intenta ad aiutare la nipote ad apparecchiare in tavola – I miei cognati partirono con un barroccio e portarono a casa il radiatore dell’aereo. Rame ed alluminio erano beni preziosi. Il motore lo prese invece un contadino”.

Pomodori e tante farinate. Ma cosa si mangiava nel rifugio ? “Pomodori conditi e tante farinate – risponde Norina – I pomodori crescevano nel campo vicino: era estate. La farina la ottenevamo pestando il grano con un macinino da caffè. Ci voleva anche un giorno. E per cuocere il pane andavamo la mattina presto dal Santini, un contadino lì vicino”. Ma si mangiava anche lo zucchero. “La mattina preparavo al mio bambino Sergio una fetta di pane con lo zucchero bagnata nell’acqua” Norina non ricorda dove avesse trovato lo zucchero, bene sotto tessera. “L’avevo portato da casa – dice – Fortuna che nel barattolo non sono mai entrate le formiche. L’acqua la prendevamo invece alla fonticina del Pratesi, distante attraverso il bosco una decina di minuti a piedi dal rifugio”. Per preparare i cibi all’inizio usavano la cucina dalla sorella. Poi crebbe il rischio di rastrellamenti (pericolosi soprattutto per i più giovani) e preparavano dei fuochi nel fitto della boscaglia, con le foglie degli alberi che diventavano una cappa perfetta per evitare che la colonna di fumo si alzasse troppo in alto rischiando di essere avvistati o bombardati dagli americani.

Il ritorno. “Un giorno a Poggio Secco sbucò un carro armato americano. Allora è vero che la guerra è finita, dicemmo, e tornammo a casa”. L’edificio dove oggi c’è il negozio del fotografo, in piazza Battisti, era stato abbattuto da una cannonata. “I tedeschi sparavano dalla piazza verso gli alleati arroccati al di là dell’Arno – racconta Norina – Poi spostavano il cannone sul retro, più in basso rispetto al piano stradale”. Gli americani rispondevano lungo la linea di tiro. Gli alleati sparavano dovunque c’era movimento. In piazza Battisti i tedeschi aveva scavato una fossa in strada, in modo da camminarci senza essere visti. “Un giorno – ricorda Norina – una signora stese vicino ad una capanna al villin delle stelle dei panni al sole. L’aereo ricognitore degli americani pensò che fosse un accampamento tedesco e lo bombardò. Per fortuna non morì nessuno. Anche il capanno dove tenevamo alcune masserizie, un po’ distante dal rifugio, fu bombardato”. Meno fortunati furono a Poggio alla Malva, dove ci furono più morti. Anche alcune case vicino alla chiesa e alla farmacia furono abbattute, minate dai tedeschi in ritirata. “Lo stessero fecero in via Macia, – ricorda Norina – al ponte al Mulino sull’Elzana e al ponte della Madonnina per la Nobel in via Stazione, che non fu più ricostruito”. Al ritorno in casa sua Norina trovò altri sfollati. Ed una scheggia di bomba conficcata in una trave. Era sparita la bicicletta di Napolino e un po’ di biancheria. “Vennero i carabinieri per la denuncia- racconta – Per i danni di guerra c’era un indennizzo, ma qualcuno se ne approfittava”. (wf)

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